Ascoltando rock, a volte devi considerare l’effetto acufene.
L’acufene è quel fischio che non se ne va dal tuo orecchio, che si sente da dio quando sei in silenzio, al buio, prima di dormire. Se siete stati almeno una volta ad un concerto sapete di cosa sto parlando.
Normalmente si dilegua nel giro di qualche ora, al massimo uno o due giorni, ma, se ci dai dentro un sacco con i decibel, quel sigo rimane per sempre.
Suonare in una band, è un buon modo per rendere questo suono eterno; ma anche ascoltare musica in cuffia, a volumi illegali non solo per la legge ma anche per la morale, ha il suo porco effetto vita natural durante. Che poi la voglia di questi volumi criminali ti venga di più con alcuni pezzi, è del tutto normale, e non puoi proprio farci niente.
Charlie Big Potato degli Skunk Anansie è uno di quelli che richiede un tributo maggiore alle tue orecchie, e il bello è che una tassa del genere la paghi volentieri, perché non esiste altro modo per godersi questo grattone in faccia.
Loro sono quelli delle ballate strappamutande alternate a violenti attacchi al napalm, quelli che hanno una potenza sonora figlia del punk, cugina del rock, amica del metal, quelli con un’attitudine pop giusta quanto basta per non finire emarginati, guidati da Skin, quella che con la sua voce puoi farci una religione.
Gli Skunk Anansie, quando ero giovane, erano cazzutissimi.
Skin doveva ancora andare a X-Factor, nessun sacco di merda pensava di andare a comandare, e forse la musica era una cosa più seria.
Quando esce Post Orgasmic Chill, il terzo album di Skin e compagni, è il 1999. Gli Skunk erano stati catapultati, mi pare tre anni prima, ai tempi di Stoosh, nell’olimpo delle rotazioni radio con Hedonism, nonostante molto probabilmente il capolavoro dell’album fosse un altro, quella Brazen che già evidenziava in toto le qualità dell’ape regina rapata a zero.
Il primo pezzo di Post Orgasmic Chill è Charlie Big Potato, ed è come se i Prodigy incontrassero i Tool di Sober, e, se è vero che ogni canzone trascina verso un sentimento diverso, questa è figlia amorale della rabbia e del disgusto.
Suoni quasi dubstep fanno da introduzione, come entrare di corsa in un androne scuro e decrepito, la puzza di marcio nel naso e nella gola e l’umidità che si attacca alla pelle del collo, prima che una rullata introduca la gigantesca forza di questo pezzo, ed è esattamente in questo punto che realizzi di non poterne fare a meno.
Rewind e su il volume a canna, livello acufene. E ascoltala di nuovo da capo, che quando arrivi di nuovo a quella combinazione di energia ancestrale vuoi che ti si infili in ogni spazio recondito del cervello, e pazienza se poi fischi come una cornetta del telefono messa male.
Poi la prima esplosione passa, e Skin inizia a cantare, ed è un attimo realizzare di essere di fronte a qualcosa di superiore rispetto al solito pezzo tosto, perché che canti come solo lei sa fare non è una novità, che la storia che ti racconta sia violenta, malsana, infetta, dovevi immaginarlo fin dai primi suoni, ma ti stordisce lo stesso.
Forse sarà che certe storie sono pesanti anche se hai il pelo sullo stomaco, che se ancora ti viene la nausea di fronte a certi racconti vuol dire che in fondo sei ancora umano; forse sarà che la canta lei, e fa ancora più male, con il suo carisma, il suo muoversi da tarantola in un video horrorifico il giusto da rendere l’idea.
Forse è solo che si parla di violenza, di stupro. E lo stomaco è giusto che venga a far male.
E’ una abominevole discesa verso l’inferno e oltre, dove anche Satana ha timore ad avventurarsi.
La protagonista si sveglia, mentre Charlie dorme ancora.
Charlie il pezzo grosso, Charlie il grande coglione, Charlie l’idiota che si crede fenomeno.
Big Potato, nello slang, può essere una di queste tre, oppure tutte.
La protervia disgustosa di chi ha il potere ed è troppo corrotto moralmente per non approfittarne, l’ignoranza perniciosa dell’egoismo sfrenato, il falso mito del’uomo forte che piega alla propria volontà la donna, secondo i propri laidi desideri e i propri istinti più marci, senza rendersi conto delle conseguenze, per cattiveria o stupidità. Perché lo può fare, come abbiamo già visto.
Charlie. Che dorme tranquillo, mentre lei si lava via l’umiliazione di dosso, le immagini di violenza e sangue fissate nei suoi occhi come centinaia di spilli.
L’interpretazione di Skin è così viva che fa quasi male, dalla partenza apatica e distaccata, alla presa di coscienza, attraverso il bridge della riflessione che fa esplodere la rabbia.
E se la consapevolezza è arrivata come un risveglio da un incubo eretto a mo’ di difesa, la reazione è veemente. Vigile al cento per cento, lei si asciuga le lacrime, vomita il disgusto di una situazione drammatica e maledetta. La rabbia entra sottopelle, è impossibile lasciarla fuori dalla porta, così come è impossibile non farsi permeare dall’intensità del cantato, mentre il pezzo deflagra come un milione di mine antiuomo pestate da Gesù in persona.
Il secondo bridge carica ulteriormente di furore l’anima coperta di sangue rappreso, e la continua, quasi ossessiva esortazione aggiunge collera alla collera.
Dillo com’è, racconta la sporca verità.
Inutile cercare di rimanere impassibili, ogni filtro tra la canzone e il tuo vissuto reale scompare, mentre Skin cresce, soverchia, esonda, maremoto devastante a cui non vuoi sottrarti, detonazione centuplicata per ogni grido di ribellione e rabbia.
Perché a volte alla violenza occorre rispondere con la violenza, e se la casa è solitaria e nascosta per l’osceno scopo di Charlie, forse può esserlo anche per la legittima, necessaria reazione.
Che se lui ancora dorme, a me piace pensare che quelle chitarre possano diventare lame, spade, cannoni, e non ci sarà mai biasimo, non esisterà delitto, solo liberazione, se per una volta il sangue che scorre non sarà il tuo.

TESTO E TRADUZIONE