All’inizio, certe volte, c’è un pianoforte.
Proprio un pianoforte vero, dico, non una tastiera, che a volte è figa uguale, ma è davvero un’altra cosa.
Strumento ben strano, il piano. Altero e sensuale, che non hai ancora capito se a volte sta sulle sue perché se la tira, o solo perché è introverso. Diverso dagli altri anche solo a guardarlo, che sia appoggiato ad un muro o messo di traverso in una sala da concerto, ma in questo caso ti vien da pensare che un po’ la faccia apposta, che in fondo è così altezzoso perché si crede meglio di tutti noi.
E’ che anche se si sentisse davvero così – ma è timidezza, fidatevi – non riesci a dargli del tutto torto.
Sta di fatto che c’è questo tipo che chiamano The Professor, ma che sui documenti ha scritto Roy Bittan, che di mestiere ha deciso di fare lo psicologo del pianoforte. Lo coccola, lo ascolta, a volte con la sua tecnica sopraffina e il suo innato buongusto riesce persino a farlo ridere. In altri casi, lo asseconda, lascia che questo magico strumento, attraverso le sue mani, esprima quello che prova.
Dice che una volta, coccolandolo come si deve, gli ha strappato una malinconica confessione in tredici note, e gli ha fatto promettere, nonostante la timidezza, che sarebbe andata bene se fossero partiti così, con tredici carezze, ripetute due volte, prima che quel signore burbero là, quello che chiamavano Scooter e poi hanno chiamato Boss, prendesse il microfono.
Perché all’inizio, certe volte, c’è un pianoforte, e una di quelle volte, una di quelle che valgono sul serio la pena, è Racing in the street.
Che sul momento ti vien da pensare che potrebbe anche proseguire così tipo per sempre. Quel semplice giro ripetuto all’infinito. E’ come se bastasse quella melodia a parlarti, ennesima dimostrazione di come certi brani parlino ad un livello così profondo da rendere la comunicazione verbale superflua, che certe sensazioni hanno una tale intimità da sembrare non abbiano bisogno di altro.
Poi Bruce inizia a cantare, perfettamente calato nella realtà creata dal piano di Roy, riservato come in altre occasioni, asservito totalmente all’aria del brano, magistrale interprete di stati d’animo non solo nella scelta delle parole, ma anche nella recita delle stesse.
Canta di una Chevy del ’69, racconta dettagli sul motore. Quell’auto è sua, l’ha sistemata assieme al suo amico Sonny, trasformandola dal rottame che era in una bomba da corsa. Lui e Sonny girano tutti gli stati del nord-est per fare gare di auto, e fanno mangiare la polvere agli altri corridori. Il tono dimesso del racconto, il rendersi conto che queste imprese per gli altri possono non essere importanti, non nasconde del tutto l’orgoglio di chi sta facendo qualcosa della quale va fiero, e in fondo chi non si è mai sentito orgoglioso di una propria caratteristica, di una propria dote, nonostante la stessa non venga del tutto riconosciuta da chi ti sta intorno con la stessa rilevanza che per te è naturale abbia.
Ma forse parlare di auto è solo una scusa, in fondo. Il dubbio viene proprio mentre Max Weinberg, prende una delle sue bacchette e comincia a picchiarla di traverso sul bordo del rullante, mentre il piano di Roy ha iniziato ad esprimere arabeschi come fossero desideri.
Alcuni ragazzi rinunciano semplicemente a vivere
E iniziano a morire poco a poco, pezzo dopo pezzo
Altri ragazzi arrivano a casa dal lavoro, si lavano
E vanno a correre in strada
Forse correre in strada, tutto sommato, è un altro modo per dire vivere. Allora forse assume un senso pieno anche la descrizione minuziosa della Chevy, che una vita uguale ad un’altra io non l’ho ancora trovata, e tutti quei dettagli non fanno altro che dire questa è la mia, diversa da tutte le altre, con la voglia di rivendicare le proprie passioni, le proprie scelte, stringendo tra le mani un volante largo come il mondo intero, convinti, sicuri che basterà questo a realizzare i propri sogni.
E per un po’ forse è proprio così, soprattutto quando lungo la pista incontri quella persona lì, quella che mancava perché il quadro fosse completo, quella che prende posto di fianco a te, sulla tua macchina che diventa in un amen la vostra.
Siete giovani, siete pronti, il mondo intero si piegherà al vostro passaggio.
Chi non lo ha mai pensato?
Poi il tempo passa, il mondo cambia, e quell’auto è ogni giorno meno pronta ad affrontare tutto.
Le sconfitte scavano rughe che non pensavi avresti mai avuto, e quelle merde di sogni sono rimasti là dove pensavi sareste arrivati, che li vedevi là in fondo fin da quando hai iniziato la corsa, ma quei desideri lì devono essere una roba tipo la vetta di una montagna, che la vedi davanti a te e pensi sia vicino, e invece col cazzo.
Ma ora attorno agli occhi della mia piccola ci sono delle rughe
E lei piange da sola fino ad addormentarsi sfinita
Quando arrivo a casa è tutto buio, lei sospira “Piccolo, puoi mettere tutto a posto”
Siede sulla veranda della casa di suo papà ma tutti i suoi bei sogni sono spezzati
Ha lo sguardo perso, da sola nella notte con gli occhi di qualcuno che odia il fatto di essere nata
E allora ci vuole una gran dose di coraggio, dopo gli errori, le occasioni perse, le mancanze di tutta una vita. Ci vuole un coraggio della madonna, per tirarsi su le maniche e tirare avanti, nel nome di tutti quelli che non ce l’hanno fatta, senza dimenticare chi ha provato a barare.
Prendi la sua mano, salite di nuovo su quella Chevy là, con lo stesso orgoglio e la stessa grinta che avevi un tempo, e che nessuno stronzo provi a fermarvi, che forse la vittoria non esiste nemmeno. Forse è solo questione di accettazione, presa di coscienza e redenzione dei peccati.
Roy accarezza il timidone, lui, tra i tasti bianchi e neri, si lascia sedurre, ballando assieme al professore, mentre il suono si fa pieno, e i rimpianti scorrono via sotto le ruote, senza per questo fare meno male.
E sembra sempre commosso, a questo punto, il piano.
Forse per quello che è andato storto, forse per la fortuna che sia andata proprio così.

TESTO E TRADUZIONE