E’ il 1978 quando Bruce Springsteen, tre anni dopo il successo planetario di Born to run, pubblica Darkness on the edge of town.
Che a volte anche i titoli degli album sono importanti.
Il ragazzo del Jersey, il vagabondo nato per correre verso un sogno, lo stesso che invitava Mary a sedersi al suo fianco e lasciarsi alle spalle una città di perdenti per provare a vincere – una vittoria che ha poco a che fare con il concetto di successo universalmente inteso, quanto invece ha più un senso di persistenza della speranza di una vita migliore – in tre anni sembra cambiato radicalmente.
Ha corso, ha combattuto, ha sperato, ma nel ’78 si ritrova vinto e disilluso. Come se da quella città non fosse mai davvero riuscito a fuggire.
La storia racconta che in quei tre anni il capo di Freehold si trova invischiato in battaglie legali con il manager dell’epoca per i diritti d’autore dei propri pezzi. Per un certo periodo, pure entrare in sala di registrazione è vietato, in attesa che si risolvano le cause in corso. Una situazione che logora il rocker e che pare sia prodromo della genesi dell’album.
Ma se si legge tra le righe della storia, diventa difficile non pensare anche a qualcosa di più intimo. Che in fondo il tuo spirito è come una potente cassa di risonanza di quello che succede nella vita quotidiana, ed è quello che alla fine ti tiene sveglio la notte.
Come se la città di perdenti da cui voler scappare non fosse altro che un malessere troppo a lungo covato, ed il solo fatto di pensare di riuscire a lasciarlo lì, davanti alla veranda di Mary, potesse dare quella spinta decisiva per provare farlo sul serio. Ecco cos’era Born to run.
Ed è come se, tre anni dopo, quell’oscurità ai margini della città certificasse il fallimento di questo tentativo, addirittura amplificandone il malessere.
In Darkness on the edge of town doveva esserci anche The Promise.
Alcuni dicono che lo stesso album avrebbe dovuto chiamarsi così, certificando a posteriori la sensazione che il disco fosse, di fatto, la manifestazione della fine del sogno springsteeniano.
The promise, però, nelle dodici pazzesche, mostruose tracce che compongono l’album, non c’è.
Troppo personale per darla in pasto a milioni di persone, si dice.
Ma nel 1999, ai tempi di Tracks, il pezzo viene finalmente edito, in una versione piano e voce straziante come tutti i sogni abbandonati.
Ho seguito quel sogno proprio come fanno quei ragazzi sullo schermo
E guido una Challenger giù per la Route 9 attraverso vicoli ciechi e pessimi giri
E quando la promessa si è rotta, ho raccattato i resti del mio sogno
Non è così per tutti?
Rimani attaccato a questa esistenza endemicamente scorretta in funzione di una promessa che ti sei fatto. La promessa di non mollare, di crederci fino in fondo, nonostante tutto. Una promessa che esigi diventi garante della tua serenità futura. Se farai a modo, se terrai la barra dritta e continuerai a crederci, il mondo, il karma, un dio a caso tra le decine che – pare – esistano, una stracazzo di fortuna buttata lì a caso ti ricompenseranno, prima o poi.
Beh, ho costruito quella Challenger da solo
Ma avevo bisogno di soldi, così l’ho venduta
Avevo un segreto che avrei dovuto tenere per me
Ma una notte mi sono ubriacato e l’ho confessato
Come in Racing in the street, anche in questo caso la macchina che ti costruisci da solo è la metafora della vita che ti sei creato mattone dopo mattone, esperienza dopo esperienza, e ancora una volta lo straordinario lirismo di Bruce spicca non tanto per la sua poeticità classica, quanto per la capacità di estendere il significato dal particolare raccontato all’esistenza intera. Una sineddoche spesso usata da Springsteen, e che spiega meglio di tutto il resto la profondità di molti suoi brani.
Il piano continua ad accarezzare la pelle della canzone, mentre il sussurro del Boss valica i confini dell’interpretazione, per farsi reale battito sanguigno nelle vene.
Thunder Road, oh baby, avevi davvero ragione
Thunder Road, qualcosa muore sull’autostrada stanotte
Eccola, Thunder Road tre anni dopo.
Un alito senza forza che narra la fine della speranza, e la strada, che da foriera di nuove avventure da affrontare con il sole in fronte diventa pezzo d’asfalto notturno che gratta, sbuccia, lacera e, infine, sventra.
Fa un male cane, questo pezzo. Fa un male della madonna.
E’ la presa di coscienza definitiva che non esiste alcun sogno, che non è detto che andrà tutto bene. Quella è solo la favola che ti racconti prima di dormire, per avere ancora un motivo per affrontare un altro risveglio, per evitare che il cuscino ti soffochi.
Thunder Road, per gli amori persi e tutti i giochi truccati
Thunder Road, per le gomme che corrono sulla pioggia
Thunder Road, Billy ed io dicevamo sempre
Thunder Road, avremmo preso tutto e poi lo avremmo buttato via
E’ tutto qui, è tutto, soprattutto, questo.
Il gioco è truccato dall’inizio, e il viaggio verso la terra promessa, verso quel posto che sogni di raggiungere è dietro nuvole nere come l’anima smarrita nella depressione, e a volte sei costretto a rallentare, forse a fermarti del tutto, che se no le ruote pattinano sull’acqua, e tira pur su la capotta dell’auto, che se no bagni tutto.
Ci credo che non hai voluto metterla in quell’album là, Bruce.
E ti capisco, vecchio mio.
Ma poi l’hai buttata fuori, alla fine. E ogni tanto la suoni anche dal vivo.
Forse è perché i demoni vanno combattuti fino in fondo, e ogni tanto fa bene ricordare e mettere nella giusta prospettiva le cose. Forse perché dopo Thunder road è arrivata sì The promise, ma dopo The promise è arrivata, per dire, Tougher than the rest.
Forse è per non dimenticarti chi sei, e cosa può fare un brutto periodo.
Forse solo perché è un capolavoro, e saremmo stati tutti più soli senza le tue parole a dirci che può davvero capitare a tutti, in qualche momento, di perdere la fede in una vita migliore.

TESTO E TRADUZIONE

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