Forse a volte c’è bisogno di mettere le cose nella giusta prospettiva.
Determinati avvenimenti vanno decantati, e prima di analizzarli occorre lasciare che la puzza di marcio che permea tutta la loro superficie svanisca.
Dopo, solo dopo, si può affrontare in maniera più razionale la loro portata.
Sa un po’ di psicanalisi, ‘sta roba, ma d’altra parte scommetto che se avessi l’opportunità di chiedere a qualche artista se le loro canzoni siano in qualche modo collegate a… chiamiamoli traumi del passato, la maggior parte di loro direbbe diavolo, sì, cazzo credevi, che fosse un gioco?
La verità è che molti pezzi sono una sorta di autoterapia per cercare di mettere ordine in qualcosa che ha lasciato il segno dentro.
Tra questi, Rooster degli Alice in Chains.
Analisi e – forse – cura, sospinti dalla necessità di scendere a patti con il proprio vissuto.
Nel 1992, gli Alice pubblicano il secondo album. Siamo in piena grunge-era – tanto per cambiare – e dopo lo splendido Facelift il gruppo di Staley e Cantrell sparecchia il tavolo con il capolavoro della carriera, Dirt. Viene da questo disco straordinario anche quella Down in a hole che segnò la mia conoscenza della band, oltre ad altri pezzi clamorosi come Rain when i die, Sickman, Angry chair e Would?
Le atmosfere dell’album sono fortemente influenzate dalla dipendenza dall’eroina del frontman e chitarrista ritmico Layne Staley, e i suoni si fanno se possibile ancora più cupi dell’esordio. Di fatto, il marchio di fabbrica delle sonorità degli Alice in Chains – claustrofobiche, pesanti e cupe – deriva da quest’opera. Un timbro stretto parente della musica heavy, e che trova ulteriore manifestazione in testi carichi di introspezione e pessimismo.
Rooster è opera dell’altro fenomeno della band, Jerry Cantrell, lead guitar ed anch’esso voce, in uno dei marchi di fabbrica del gruppo, la sincronia del cantato dei due amici.
Parte lenta, Rooster, come in attesa di qualcosa in procinto di manifestarsi, ma non ancora.
Il falsetto porta un canto quasi fosse di sirene, come desideri mai sopiti e speranze a buon mercato, ma il giro di accordi che lo accompagna restituisce tutt’altra idea. Come a vederle da lontano, belle, sensuali, disponibili, per poi avvicinarsi e rendersi conto del grande inganno, sopraffatti dalla puzza di pesce marcio e dalle piaghe sulla loro pelle. Poi Layne parte a cantare sulla stessa serie di accordi, mentre il feedback di chitarra canta con la voce di un’altra sirena, di quelle antiaeree.
Non ho ancora trovato un modo per uccidermi
Gli occhi bruciano di sudore pungente
Il padre di Cantrell, Jerry sr., è un veterano del Vietnam, e da quella guerra è tornato senza mai tornare sul serio, fino a divorziare dalla moglie e lasciare la famiglia. Lo chiamavano il “gallo”, per via di quei suoi capelli rossi che non stavano mai a posto e facevano quel cazzo che volevano a mo’ di cresta. Lo chiamavano rooster.
La luciferina voce di Layne procede nel suo canto iniquo, dando corpo alle parole che Cantrell scrive immedesimandosi nella figura del genitore.
Le pallottole mi fischiano attorno da qualche parte
Sembra quasi di sentire il sudore colare dalle tempie; la divisa militare umida e fastidiosa in mezzo al culo; gli stivali troppo larghi e le dita dei piedi bagnate. La capacità lirica di Cantrell è strepitosa, ma non è da meno il magistrale arrangiamento del pezzo, e su tutto domina l’interpretazione di Staley. Eccellenza si somma ad eccellenza, ed è come se il pezzo diventasse erede in musica dei capolavori cinematografici del genere.
L’effetto che ne scaturisce è di una tensione crescente, che sai dovrà spezzarsi una volta raggiunto il culmine. A scandire un inesorabile conto alla rovescia, entra il charleston di Sean Kinney, mentre la linea di basso di Mike Starr sembra una vena del collo che inizia a pulsare sempre più forte.
Ecco, arrivano a far fuori il Gallo
Tutto guida in direzione del botto, e, nonostante questo, quello ti coglie di sorpresa. Come lo scoppio di un petardo che tu stesso hai acceso. Come un tradimento annunciato. Come la morte. Certe cose non smettono di trovarti impreparato solo perché te le aspetti.
Si, ecco che arriva il Gallo
L’esplosione contrae i tuoi muscoli e l’adrenalina prende a scorrere con una vigoria da fiume in piena, pestata sul rullante, come dita che passando sulle corde si insinuano nella tua mente, con la voce di Layne che diventa puro tuono, irraggiungibile, magistrale, perfetta.
E quando ritorna la calma non è più quella di attesa snervante della prima strofa; è una calma che sa di morte, calma fatalista, calma devastata. E’ la quiete della totale presa di coscienza di una situazione puttana.
Camminando a testa alta, uomo mitragliatrice
Mi hanno sputato addosso, a casa mia
Gloria mi ha mandato le foto del mio ragazzo
Ho le mie pillole contro la malaria
Il mio amico sta esalando il suo ultimo respiro
Oh dio, per favore non vuoi aiutarmi a farcela?
La comprensione che Cantrell mostra in relazione a quanto suo padre – come altre migliaia di figli ripudiati dal proprio paese – ha dovuto affrontare raggiunge l’apice nell’immagine di Gloria, vero nome della madre del chitarrista, come si trattasse di un ti capisco, adesso, pa’, trasformando i demoni dell’abbandono in qualcosa di diverso, per certi versi positivo, anche se non per questo meno tormentato.
E poi di nuovo Staley. Di nuovo, ma mai come prima. Ora Layne è come rapisse centinaia di angeli e demoni, strangolandoli uno ad uno per fottergli la voce e farne un tutt’uno con la propria, in un rito sacro ed empio che si manifesta nell’ultima, definitiva, violenta granata incendiaria.
Lo sai, lui non morirà
No, no, no, lo sai che lui non morirà
L’urlo finale, prima che le sirene putrescenti si portino via l’odore di napalm e sangue rappreso, diventa riconoscimento dei propri pensieri di bambino che vede nel padre il proprio eroe immortale, ed allo stesso tempo, proprio attraverso quanto successo a lui, prova a trasformarsi in forza vitale per affrontare la propria esistenza.
Lui, il padre, non morirà, non è morto, e con la fatica, il dolore, la rabbia, continua la lotta contro i propri demoni.
Tu, il figlio, proprio in funzione di questo esempio, proverai a fare lo stesso, a volte guidato da un mostro ineffabile che solo attraverso l’annientamento della parte razionale può trovare pace.
Ognuno ha la propria guerra da combattere, volente o nolente, e si cerca sempre di portare a casa la pellaccia.
Le cicatrici rimangono, e quando fuori piove magari fanno più male, ma in fondo si tratta sempre di cercare un modo per sopravvivere, mettendo nella giusta prospettiva le cose, uccidendo anni di cattivi pensieri e rivendicazioni mettendo su carta i propri fantasmi, masticando l’amaro gusto della vita, col suono potente di una band strepitosa.

TESTO E TRADUZIONE