Non so come succeda che una canzone diventi parte di te.
Non penso sia un processo immediato.
Servono periodi di adattamento, perché spesso non sei pronto.
Sei giovane, oppure non sei nel giusto stato d’animo per apprezzare, oppure non sei giovane.
E’ sempre questione di tempi giusti.
Ci penso spesso a questa cosa, e più invecchio più mi rendo conto che la prima impressione è spesso una stronzata. Come per le persone, anche le canzoni hanno bisogno di un proprio percorso, e questo a volte non coincide con il tuo.
E quindi la prima impressione ti frega.
Ecco, stasera non parliamo di un caso del genere.
Tonight, Tonight, no.
Proprio no.
E’ lì, dove deve essere, da 21 anni, dal primo ascolto.
E, porca troia, non ha la minima intenzione di levarsi.
E’ il 1995, e quel vecchio volpone di mio zio Paolo mi propone l’ascolto di questo album.
Mellon Collie and the Infinite Sadness.
Se hai 18 e non sei esattamente il figo che agli altri sembra venir così naturale essere, è come se ti capitasse in mano il sacro Graal.
E lo sai già. Anche prima di ascoltarlo.
Sarà quella copertina. Sarà quel titolo.
La prima impressione è quella definitiva. E’ quella giusta.
Poi, lo fai partire.
La prima traccia non è Tonight, Tonight, sono quasi 3 minuti di estasi pura, il pianoforte che dipinge musica.
Capisci l’infinita tristezza del titolo, capisci un po’ di più di te stesso, capisci una piccola parte dell’universo, in quei quasi 3 minuti.
Il pianoforte chiude la passeggiata nelle tue vene, come gocce di pioggia che sta per finire.
Ed eccola.
Entra così.
Non avverte neanche, non saluta.
Spalanca la porta e tu rovesci il tè che stavi servendo alla tua anima.
Spazza la malinconia autunnale attaccata al vetro di un autobus e ti trascina fuori, dove la tristezza balla con le mani in aria per un po’.
Giuro che ricordo la pelle d’oca che mi è venuta la prima volta che ho ascoltato Tonight, Tonight. E’ la stessa di stasera. E’ la stessa di sempre.
La voce di questo tipo sembra una presa in giro all’inizio. Non sai se è una ragazza o un ragazzo, ha un timbro così particolare che sembra venuto da Marte.
Ti dice che stai cambiando. Che ogni cambiamento si porta via un po’ di quello che sei stato. Che più cambi, meno lo senti.
Ti dice di credere. Che non hai aspettato per niente.
Canta di crescita, di cambiamenti, di speranze, di promesse.
Canta di di crederci, di credere che la vita possa cambiare.
Canta di te. Per te.
E’ ovvio.
Come diavolo fa a conoscerti così bene?
Attorno a lui la band sviluppa un muro sonoro che a confronto la muraglia cinese è fatta con i Lego.
Billy Corgan, James Iha, Jimmy Chamberlin, D’Arcy Wretzky.
Eccoli, gli Smashing. C’è anche una ragazza, suona il basso. Come fai a non amarli?
A volte penso a quando avevo 18 anni, tardo adolescente distratto e irrequieto.
So cosa voleva questa prima versione non più bambina di Imerio.
So quello che credeva della società, della vita, della morale.
Questo Imerio di adesso è parente di quello là.
Ma quando penso a quell’età, non ricordo quasi mai le sensazioni che provavo.
Tranne quando partono gli Smashing.
E allora ricordo.
L’urgenza del momento. L’argento vivo addosso ad aspettare qualcosa, qualcuno.
E quando Billy canta di crocifiggere i bugiardi, rendere le cose giuste.
Quando canta che l’impossibile è possibile.
Allora lo ricordo.
Ero così.
Proprio così.