E’ ora di una favola.
Di quelle che racconti prima di dormire.
Apri tipo uno di quei libri cartonati con delle grosse figure di animali umanizzati, ti siedi sul bordo del letto, e racconti.
“C’era una volta un gruppo musicale strano che più strano non si può.
Erano bravissimi a suonare, ma volevano fare le cose alla loro maniera, e non seguire le indicazioni di chi vendeva i loro dischi.
Così, dopo aver scritto qualche canzone che era perfetta per il periodo musicale del quale loro facevano parte (alcune di queste erano veramente belle, una in particolare, anche se ti faceva sentire come un verme, era splendida) questa band iniziò a ribellarsi.
All’inizio furono piccole cose, iniziarono a parlare nelle loro canzoni di alberi di plastica e spiriti di strada, ma con il tempo i cambiamenti si accentuarono.
Piano piano, le persone che li ascoltavano dall’inizio non li riconobbero più.
Nessuno capiva cosa stesse succedendo.
Parteciparono a un film, e quando si venne a sapere che lo avevano fatto, nessun seppe trovare le tracce del loro passaggio, era come se fossero stati ospiti di un talk show, ma solo alla fine, quando tutti erano già andati a dormire e anche il pubblico in studio se ne stava andando verso l’uscita.
Stavano cambiando ancora, sempre di più.
Nessun compromesso, volevano fare la loro musica, a modo loro.
A costo di scomparire. A costo di non essere rockstar.
Un bel giorno uscì il loro nuovo album.
Fu allora che tutti capirono.
Ai geni non puoi imporre un percorso.
Non puoi dire loro “segui quella linea lì”.
Sei tu che seguirai la linea che tracciano loro”.
Sorriso, rimbocco delle coperte, bacino sulla fronte, buonanotte, luce spenta.
OK Computer.
Merda.
E’ nei primi 3?
Di sempre, dico.
Per me ci sta.
Poi, la musica è così legata alle sensazioni del momento che mi sentirete infilare nei primi 3 album della storia almeno 50 dischi. Se va bene.
Ora, è così.
L’amore non è eterno, figuriamoci una classifica dei top 3.
Ma questo torna fuori un po’ sempre, in quei 3 lì, quindi forse è così e basta.
Anyway.
Ok Computer. No Surprises.
Perché subito No Surprises? E le altre?
Calma. Abbiamo tempo.
L’altra sera la figlia di mio cugino ha chiesto al papà se gli faceva ascoltare No Surprises.
Questo è un motivo.
E poi perché è No Surprises.
Che inizia con uno xilofono, ti accompagna nel bel mezzo di una apatia desolata che non è così distante da quel “resistere in una quieta disperazione” così inglese.
Che sembra serena e forse è solo sedata, con Thom Yorke che ha una voce che sembra sotto Atarax.
Ti canta di come sei saturo di emozioni che nemmeno hai cercato e che probabilmente non avresti nemmeno voluto, tutto il tempo dedicato a perseguire un successo nel lavoro e più in generale nella vita.
Una vita che come un vampiro ti succhia energia e vitalità, mentre i lividi sull’anima non guariscono mai del tutto.
L’esistenza che la società dispone è claustrofobica e malata, ma a prima vista sembra amichevole come una stretta di mano.
Soffocante. Come l’acqua che cresce nel video.
Una vita tranquilla che assomiglia a un coma vigile.
A un robot senziente.
Il cui obiettivo primario è una bella casa, un bel giardino, pochi pensieri e superficialità inutili per lo spirito, sempre più costretto al silenzio.
Una società che, come nella sindrome di Stoccolma, si finisce per amare, senza ricordarsi di essere stati rapiti e forzati tanti, tanti anni fa.
No Surprises è l’ultimo grido di allarme, l’ultimo singhiozzo di ribellione di una persona confusa e stanca di perseguire risultati a tutti i costi.
Stritolata tra comodità che non ha chiesto e che agogna come una droga.
E allora va bene così, nessun allarme, nessuna sorpresa.
Solo silenzio.
Quasi felice.
Per nulla catartico.