Scrivere dell’importanza degli Who nella storia del rock è pleonastico.
Roger Daltrey, voce. Pete Townshend, chitarre e tastiere. John Entwistle, basso. Keith Moon, batteria.
Non c’è bisogno di altre presentazioni, forse perché loro stessi lo sono.
THE WHO.
La presentazione del rock and roll, personificazione dello spirito ribelle e della furia rivoluzionaria dell’adolescenza.
A volte le dichiarazioni degli altri artisti nei tuoi confronti rendono la misura della tua grandezza.
Andiamo, chi non ascoltava gli Who negli anni sessanta?”, ha dichiarato Patti Smith.
Eddie Vedder, che da leader dei Pearl Jam non ha mai rinnegato l’influenza degli Who sulla band, ha dichiarato che probabilmente gli Who “rimangono la più grande live-band della storia della musica”.
Lo stesso Bruce Springsteen ha omaggiato più volte la band britannica, eseguendo cover infuocate durante i propri live. E pure Joey Ramone espresse la propria ammirazione per i quattro inglesi, avvalorando la tesi che in un certo modo tutta la punk-era abbia un grosso debito di riconoscenza nell’attività di Townshend e soci, se non altro a livello di verve distruttrice delle convenzioni prestabilite.
Le stesse convenzioni che gli Who polverizzano nel 1965 con My Generation, inno generazionale di rivolta contro il mondo degli adulti, che stordiva l’ottica benpensante con il famoso verso “spero di morire prima di diventare vecchio”. Un verso che riassume secoli di narrativa adolescenziale passata, presente e futura, e spiega meglio di saggi paternalistici l’ansia che ogni singolo pischello si sente crescere dentro da sempre: quella di essere diverso dalle generazioni precedenti, di fare qualcosa per cambiare il mondo cercando di renderlo più aderente alla propria indole, senza invecchiare mai.
Qualche anno dopo, nel 1971, gli stessi ragazzi lasciano ai posteri un monolite che prende il nome di Who’s Next. Un album che pesa come uranio sulla storia del rock, e che diventa centro gravitazionale e metro di paragone per qualsiasi band a base di chitarre distorte e batterie picchiate come ne andasse della vita stessa.
Won’t get fooled again è l’ultima traccia, incazzoso monito a tenere d’occhio i leader delle idee di cambiamento e il mito stesso di rivoluzione.
La rivolta popolare ha da sempre un fascino magnetico. L’idea che il popolo, somma delle singole persone spinte da esigenze comuni, si ribelli ad un ordine costituito, deponendo dittature, sollevando re, cambiando la storia di una nazione, ha un impatto emotivo esaltante, tanto da ottenebrare la logica.
Purtroppo, con somma delusione, è facile constatare che nessuna rivoluzione è mai stata di inequivocabile dominio popolare, inteso come entità autoregolante senza leader, né guide, né interessi personali.
Ogni tentativo di rovesciare il paradigma in vigore, sostituendolo con un altro ordinamento sociale od economico si è sostanzialmente risolto con la promulgazione di un altro paradigma. Di fatto, una nuova classe dominante ha sempre sostituito la precedente, utilizzando il malcontento popolare come grimaldello per destituire il passato ed accumulare potere, e il fatto che ci si possa riconoscere ancora oggi in un canovaccio del genere non è per nulla consolatorio.
Il pezzo si apre con un sintetizzatore, quello sì completamente sovversivo (lo stesso sintetizzatore che apre la prima traccia, la mitologica Baba O’Riley), e che in questo pezzo si stende come un tappeto di buone intenzioni per tutta la durata, riempiendo l’aria come fosse un pulviscolo sempre più spesso.
Alla batteria, Keith Moon abbatte per quasi nove minuti la propria furia su tom e crash assortiti, con una interpretazione magistrale, e in un amen si capisce come mai sia considerato assieme a John Bonham il miglior batterista della storia del rock. Aveva la nomea di essere un folle pericoloso, Keith, ma d’altra parte presentatemi un batterista completamente sano e vi offro una birra.
La ritmica di Townshend porta a scuola ancora oggi pletore di chitarristi col ciuffo, mentre il basso di Entwistle meriterebbe un ascolto tutto per lui, cercando di disconnettersi dall’armonia del pezzo per captare ogni singola variazione che il fenomeno imprime allo strumento.
Roger Daltrey, tra un boccolo e l’altro aggredisce dal primo istante con la sua grinta, esprimendo al meglio uno dei testi più significativi di Townshend, e se combatteremo per le strade, spazzando via la morale che i padroni adorano, gli uomini che ci hanno incoraggiato alla lotta siedono già nelle sedie abbandonate dai vecchi gerarchi, giudicando i torti secondo le nuove regole morali, che comunque regole sono.
Nessuna rivoluzione è esente dal potere, ci dice Pete, ed è il potere il vero nemico.
Won’t get fooled again è un pezzo che andrebbe tatuato a fuoco sul torace di ogni rivoluzionario, marchiato con una lama sulla schiena di tutti i soloni del cambiamento.
Perché prendo la chitarra e suono, proprio come ieri, e, anche se ci credevamo, il mondo sembra proprio uguale, e la storia non è cambiata.
Solo gli slogan sono diversi, in fondo, perché il potere si ricicla, e trova nuove forme per fagocitare ogni istinto di ribellione, diventando a propria volta un movimento da abbattere, in un circolo vizioso che muta tutto affinché non cambi niente.
Un dritto poetico come pochi altri, due anni dopo, in Italia, dirà che non esistono poteri buoni.
La chiave è tutta qui.
Forse quel sintetizzatore di fondo è lì per quello, martellante, ipnotico, ossessivo, spirale malata delle bugie a cui ingenuamente siamo portati a credere, anche dopo averlo preso nel culo una volta di troppo, giurando che non ci faremo fottere di nuovo.
E l’urlo finale di Roger, liberatorio, vitale, seguito da Keith a picchiare come un mastro ferraio, sotto quell’ampli di Pete alzato al massimo, forse vuol dire che l’unica rivoluzione davvero pulita è quella nella mente delle singole persone, perché se il nuovo capo è uguale al vecchio capo la soluzione è iniziare a pensare con la propria testa.
E forse avevamo tutti ragione a sedici anni, quando pensavamo che il mondo fosse una merda e andasse cambiato, e la nostra furia, la nostra rabbia, il nostro malcontento passava attraverso il sudore dei salti ai concerti e i ritornelli cantati alla luna, nella rivoluzione del rock che ci insegnava a ribellarci.
Meglio delle rivoluzioni che abbiamo conosciuto poi, che ci hanno insegnato a rassegnarci.

TESTO E TRADUZIONE

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