San Diego, California.
Clima meraviglioso, temperature gradevoli, sole che sorride con la sua faccia da schiaffi, come in quei disegni che facevi da bambino.
Spesso le correnti musicali si adattano al posto in cui nascono; lo stile delle band è sovente influenzato da una sorta di imprinting che il clima lascia addosso.
Per certi aspetti, i Pink Floyd non potevano che essere inglesi, o quantomeno nordici, e i Beach Boys trovarono la loro ovvia manifestazione sulle spiagge californiane a sud di Los Angeles. E’ come se gli agenti atmosferici creassero ripercussioni naturali dentro la mente di alcuni artisti, portandoli in una direzione piuttosto che in un’altra.
A volte, però, qualche cellula impazzita sfugge alle regole, che se fai rock c’è comunque la tua anima in gioco, e dentro quella può nevicare anche all’equatore.
E’ il caso dei Black Heart Procession, venuti da quella città che è quasi Messico a deliziare il mondo con le loro tenebre e la loro poesia decadente, maestri nel creare costruzioni sonore che sulla sabbia in riva al mare, di fianco ad un Baywatch fisicato o una bionda rifatta in topless, sono fuori luogo come la buona musica a Sanremo.
Perché viene notte anche in California, e come insegna David Lynch, non è sempre tutto rose e fiori, su quelle strade dirette verso il nulla, a pochi metri dalla civiltà più evoluta ma già persi nel deserto.
Pall Jenkins, cantante, e Tobias Nathaniel, tastierista, suonano già insieme nei Three Mile Pilot, verso la fine degli anni ’90, quando quasi per gioco, durante un tour, iniziano a comporre musica più malinconica e scarna rispetto alla proposta della band originaria.
Nasce così la Processione dei Cuori Neri, evocativi già dal nome, disperati e funerei, emozionali ed emozionanti, e nel 1999 è già tempo del loro secondo album, probabilmente uno dei dischi più straordinari degli ultimi vent’anni.
Si chiama semplicemente 2, così come il primo uscito due anni prima si chiamava semplicemente 1, che essere laconici deve essere un tratto distintivo della band anche nella scelta dei titoli.
Il suono dei BHP è particolare, ed è quasi impossibile incasellarlo in una nicchia di genere. Folk, goth, blues e dark si mescolano senza ritegno, e se in alcuni punti sembra di ascoltare il Nick Cave più decadente, in altri il paragone che salta in testa è quello con la new wave inglese, senza dimenticare alcune atmosfere che fanno tanto deserto notturno, a metà strada tra i Calexico e Leonard Cohen.
Blue Tears, il secondo pezzo dell’album, oltre che sfuggire ai generi, gioca una partita tutta sua anche con il tempo e lo spazio, quasi venisse da un altro universo.
Non so se esiste il termine canzone di confine, ma, nel caso, penso renda bene l’idea.
In Blue Tears è tutto al limite. La notte e il giorno, la gioia e il pianto, la vita e la morte.
Un confine forse materiale, ma anche temporale, spirituale, emozionale.
Sembra la scena di un film.
Forse il molo di una città di mare ai primi del ‘900, il pavé bagnato dalla pioggia di qualche ora prima, un carro trainato da due cavalli che lentamente passa, e che liberando la visuale mostra una locanda.
Le indistinte voci dei marinai avvinazzati giungono flebili alle tue orecchie mentre ti avvicini, e il suono di una fisarmonica, ancora confusa assieme ai suoni della strada, passo dopo passo prende la scena, fino all’ingresso nel locale fumoso e caotico.
Nell’angolo, di fianco all’ingresso, un menestrello disperato canta la sua storia, il cappello in terra per gli spicci che avrai voglia di lasciargli, mentre un organetto solenne si aggiunge alla fisarmonica, che ti sembra manchi solo la scimmietta danzante.
Ordini una birra alla scorbutica matrona del locale, appoggiando i gomiti sul bancone di legno intriso di alcol e lacrime, e in pochi secondi sei rapito dalla mesta melodia.
Il giullare racconta la sua storia, bella e triste come ognuna dovrebbe essere.
Ora so che devo partire, dice, e saranno quelle poche parole così comuni in un posto del genere, ma il chiacchiericcio si spegne progressivamente, ed ora c’è solo lui, la sua fisarmonica, la sua storia.
Che queste lacrime tristi non smettono di cadere, e ti sembra quasi di vederle, anche se la sua tristezza è tutta confinata nello strumento, e la sua voce rimane flebile ma ferma.
E’ un addio alla sua amata, e in questo posto chissà quanti hanno provato la stessa sensazione, senza mai riuscire ad esprimerla, perché dirla a voce è troppo intimo, ed è solo possibile esprimerla a suoni, surrogati delle parole che nessuno trova mai per quel commiato definitivo.
Giri gli occhi attorno al locale, e ti accorgi che molti di questi uomini duri, forgiati dal sale e dal vento, hanno le pupille acquose, e i calici di birra non si rovesciano più sbattendo uno contro l’altro a mezz’aria in brindisi disperati, ma sono sospesi a metà strada tra il cuore e la bocca.
E anche tu, come tutti gli altri, resti ipnotizzato guardando l’angolo vicino all’ingresso, dove il bardo dà corpo ai tuoi sentimenti più reconditi, ma è come non riuscissi a mettere a fuoco la sua figura, mentre ti rendi conto che l’addio che il poeta sta cantando è l’immortale inno alla vita di chi la vita l’ha infine lasciata.
Indifferente e sornione, che da morto in fondo si sta bene, dentro una calda taverna, ma con quella tristezza atavica che non puoi cancellare, e quelle lacrime che non smetteranno mai di scendere, e i tuoi compagni di viaggio completamente ebbri della vita che non hanno più, chiedono all’aedo di non smettere mai, che se questo fosse il paradiso, o l’inferno, o basta sia un qualsivoglia aldilà, alla fine ci si potrebbe pure fare il callo.

TESTO E TRADUZIONE

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