Mentre ti giri mi dici “Voglio vedere la tua vera essenza”.
Ti sorrido, come non aspettassi altra domanda. In mano stringo un pezzo di carta, con sopra il tuo nome già da prima, già da sempre.
“Prendi un paio di scarpe da impolverare”, bisbiglio al tuo orecchio.
C’è una strana luce nei tuoi occhi. Da un cassetto tiri fuori un pezzo di carta uguale al mio, anche quello forse lì chissà da quanto.
Sorridiamo, mentre ci sembra di sentire il cuore che accelera. Prendiamo gli occhiali da sole, mettiamo quei jeans vecchi, al polso forse leghiamo un bandana.
Poi ci prendiamo per mano, e andiamo verso il palco.

Che se la musica è vita, un concerto rock è quello che la rende vera, senza alterazioni, trucchi, calcoli. Un po’ come quando eri bambino, e la tua essenza era incontaminata.
7 canzoni in versione live, per trasmettere emozioni che lo studio non può, e per certi versi non deve, nemmeno immaginare. 7 canzoni live per un mini concerto messo giù così come viene. Che come al solito non ci sono pretese di meglio o peggio, solo impressioni.

BRUCE SPRINGSTEEN – SPIRIT IN THE NIGHT
Luglio è un gran mese per i concerti. Petti nudi, birra a fiumi, quell’aria da vacanza propria delle giornate calde, che in braghe corte tutti si prendono fortunatamente meno sul serio.
Nel 2013, l’undici del mese, a Roma arriva Bruce Springsteen. Un concerto memorabile, aperto sulle note di C’era una volta il west, come spesso da queste parti, che già così i brividi si sprecano e pare quasi di essere in gennaio. Poi, entra un organo blues, e pochi istanti dopo si inizia a sentire il richiamo dello sciamano.
Lui ancora non c’è. Si sente però. Come un predicatore pagano ma anche no, intona la sua litania.
Potete sentire lo spirito?
Entra, senza interrompere l’esortazione al pubblico, solo aumentando l’intensità della sua preghiera.
La temperatura cresce, il capo là in cima saluta Roma, Roma ricambia ebbra di rock, lui arringa la folla, che risponde a tono. La miccia si accorcia sempre di più, la band si sgranchisce le vecchie, sacre ossa.
Poi, al massimo della saturazione emozionale (one, two, three, four) Mighty Max inizia a martellare il vetro che separa il decoro dallo sfogo totale dell’adrenalina.
Il vetro esplode, i fiati gridano.
Bruce è tornato, il concerto inizia come meglio non potrebbe. Provate a stare fermi, se ci riuscite.

 

U2 – 11 O’CLOCK TICK TOCK
C’è stato un tempo che quando gli U2 salivano su un palco bruciavano energia pura. Ma proprio quella roba infuocata, urgente, formicolante, forse ingenua ma vitale che per comodità possiamo anche chiamare rock.
Nel 1983, dopo un trittico culminato con il meraviglioso War, pubblicano un disco live, Under a blood red sky. La band è ancora nella prima fase della propria carriera, il successo planetario è ancora lontano, i capolavori assoluti The Joshua tree e Achtung baby sono così distanti da sembrare di un’altra galassia. Ma la potenza che i quattro sono in grado di sviluppare nelle esibizioni che diventano l’album resterà per sempre incomparabile. Mullen picchia come uno di quei minatori che di lì a poco sarebbero scesi in battaglia, Clayton, essenziale ed indispensabile, riempie l’aria, Bono è in uno stato di grazia pareggiato – forse superato – solo da The Edge, autentico deus-ex-machina delle sonorità della band.
11 o’clock tick tock, con quel titolo un po’ così, non pare nemmeno di doverla prendere sul serio, almeno finché non inizia. Gli arabeschi del chitarrista sono talmente strepitosi che a tratti la voce di Bono infastidisce come fosse un Caressa qualsiasi nella partita di addio di Totti. Ma poi cosa fai, non gli perdoneresti tipo tutto a quello lì? Quello che dopo lo straripante, sineddotico, assolo di The Edge inizia a crescere, fino a che non esonda, e via a rincorrersi l’uno con l’altro, in una esaltante gara di virtuosismi vocali e chitarristici.
Che c’è stato un tempo che quando gli U2 salivano sul palco poteva anche prendere fuoco tutto, e sarebbe stato un bel bruciare.

 

JIMI HENDRIX – THE STAR-SPANGLED BANNER
Gli ampli rimandano ancora feedback che ronzano nella testa, mentre gli irlandesi lasciano il palco al re della chitarra, con la versione dell’inno americano più controversa della storia del rock.
1969, Woodstock.
Un inno che diventa una sirena antiaerea, un’esibizione che entra nelle vene, che odora di napalm, che urla da un palco, dal palco per eccellenza, una storia di segregazione ed opportunità, violenza e libertà, prevaricazione e sogni a portata di mano, nella eterna dicotomia degli Stati Uniti, forza castrante e vitale del mondo contemporaneo.
Qualcuno ha detto che senza quella esibizione, Woodstock sarebbe stata meno importante.
Qualcuno ha affermato che quei quattro minuti e rotti sono stati il più grande momento di tutti gli anni sessanta.
Qualcun altro ricorda che quel genio, con la sua performance, ha forse detto più su quella guerra e sui suoi echi di tutti i romanzi, documentari e film sul tema messi insieme.
Di sicuro, Jimi che stritola l’inno americano è uno dei momenti più importanti della musica rock, intesa come forma espressiva artistica e non come puro intrattenimento fine a sé stesso.

 

NIRVANA – WHERE DID YOU SLEEP LAST NIGHT
Negli anni ’90 il canale MTV trasmetteva un programma di concerti unplugged – cioè a spina staccata – degli artisti sulla cresta dell’onda. Da queste esibizioni venivano poi ricavati album o video da mettere in rotazione sul canale stesso.
Tra questi, quello probabilmente più famoso, più bello ed emozionante fu quello del 18 novembre 1993 dei Nirvana.
Oltre alla reinterpretazione in chiave acustica di molti loro brani, i Nirvana suonano anche alcune cover, tra cui una canzone tradizionale folk statunitense, le cui versioni riconosciute come ufficiali risultano essere quelle di Bill Monroe e LeadBelly negli anni ’40, con il titolo In the pines, ma anche Black girl e Where did you sleep last night.
Con questo ultimo titolo viene presentata dai Nirvana in chiusura del concerto, e, pur essendo una cover, racchiude tutta la potenza, il disagio ed il carisma di Kurt Cobain.
In culo a tutti quelli che ancora dicono che, in fondo, i Nirvana non erano questo granché.
Com’eri bello, Kurt. Com’eri bravo. Com’eri giusto.
E quando tutti noi l’abbiamo ascoltata su disco, tu te ne eri già andato.
Manchi ancora, e dai sempre i brividi, ragazzo mio.

 

LITFIBA – CANGACEIRO
Prima degli encore, ogni concerto rock che si rispetti si chiude con una scarica di energia tellurica.
Normalmente si accendono tutte le luci, e la band attacca un pezzo da cantare, ballare, saltare.
Nel 1993 i Litfiba pubblicano l’album live Colpo di Coda, e la versione di Cangaceiro contenuta nel disco ha esattamente questa forza.
La versione originale viene rovesciata completamente, e un muro sonoro implacabile spettina anche i pelati. Ghigo stritola le corde della sua chitarra mentre il pezzo si srotola tra potenziali pogate e cori da saltare stile MJ23. Pelù è al top del proprio potere istrionico, e tutta la band spinge sull’acceleratore. Poi, mentre il feedback di Ghigo va esaurendosi, si sente la folla in delirio che applaude. Mancano 3 minuti alla fine della traccia, quando la chitarra riprende il proprio lavoro, sottile, poi entra il charleston, poi Piero.
E sul grido di Pelù si riparte, con un solo diabolico e magistrale. Fino alla rullata che segna l’ingresso ancora di Piero, gli ampli così carichi che li vedi muoversi, e la potenza che sembra non poter finire mai.
Resta dentro, una roba simile.
Que viva El bandido Litfiba
Grazie Buonanotte
Portati a casa le orecchie che fischiano, ne è valsa la pena.

 

VASCO ROSSI – SIAMO SOLO NOI
Ma prima, ci sono i bis.
E dite un po’ quel cazzo che volete, ma un live di Vasco, almeno una volta nella vita andrebbe fatto.
Siamo solo noi è uno di quei pezzi che sono immaginario collettivo già nella versione studio, ma forse mai come in un pezzo del genere si capisce il profondo legame tra il pubblico e l’artista, e di conseguenza l’importanza di godersela live.
Quel legame che ti fa fare viaggi di merda, ti fa stare scomodo per ore, a digiuno, con la vescica piena e il fiato corto, ma a cui non puoi proprio rinunciare, perché cantare tutti insieme un pezzo del genere non ha davvero prezzo.
Son trent’anni che rompono il cazzo a Vasco per i suoi eeeeeh, e probabilmente ora il vecchio lupo ci marcia anche un po’, ma a sentire quest’album del 1984 la sensazione è che lui stesso non possa fare a meno del suo pubblico e sia in prima persona autentico come ogni spettatore mentre la canta.
E un po’ di malinconia riempie l’iride, sulla presentazione della band, perché capisci che sta davvero finendo, e fino alla prossima volta non farai altro che cercare le stesse emozioni.

 

PEARL JAM – YELLOW LEDBETTER
E poi arriva l’ultimo pezzo, davvero l’ultimo.
Quello dei sorrisi che prendi in prestito anche i denti degli altri.
Quello che di solito ti trovi abbracciato, in gruppo, in coppia, a caso, che tanto ne vale la pena comunque.
Tipo che fai un cerchio con tutti quelli che vedi intorno, e sarà la birra, sarà l’emozione di un altro concerto memorabile, sarà che se poi ti capita la voce di Eddie che canta che sembra un sorriso come fai a non commuoverti, e non c’è alcuna vergogna, se ti viene fallo, che in fondo se non volevi provare emozioni potevi pure stare in poltrona.
Yellow ledbetter funziona più o meno così: si arriva alla fine di un concerto, e a volte prima di Rockin’ in the free world di Neil Young, Eddie e i Pearl tirano fuori questo gioiello mai contenuto in alcun album, con il testo che varia volta dopo volta, vuoi perché Eddie cambia le parole, vuoi perché ognuno gli dà un po’ il significato che gli pare.
E forse non c’è niente di meglio di un pezzo del genere, che comunica quello che vuoi ti comunichi, simile ma sempre diverso, come fosse ogni volta un’emozione nuova ma confortevole, una persona diversa di cui innamorarsi, che ti restituisce però le stesse emozioni di sempre.
Val la pena vivere per una roba simile, date retta a me.

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