• Alla fine, va comunque come deve andare, ed è sempre la musica a fare quel cazzo che le pare.
    E quindi, Nirvana, e il loro manifesto.
    Parlare di Smells Like Teen Spirit, in fondo, è parlare degli anni ’90.
    Di quello e del mondo che si è trascinato avanti da allora.
    Di quello, del mondo che si è trascinato avanti da allora, e di K.
    Soprattutto di K., in effetti.
    E’ doloroso, farlo, e triste. Ma va fatto.
    E’ stato l’ultimo vero messia, Cobain, con il suo piccolo gruppo di disadattati, così piccolo che si allargò a tutto il mondo, con quell’ansia ben conosciuta di farsi sentire, stupida e contagiosa.
    Il tema della necessità di comunicare il proprio messaggio è centrale nella musica rock, e ogni epoca storica ha avuto i propri demoni da combattere, e a volte le proprie grida di rivolta nei confronti della società.
    Il periodo conformista e paranoico post-bellico portò alla nascita del rock and roll, e giorno per giorno la musica si è rivelata una perfetta cartina tornasole della vita sociale occidentale.
    Dalla guerra fredda al terrorismo degli anni ’70, passando per il Vietnam, ogni epoca storica ha avuto i propri alfieri musicali, singoli portavoce che si sono fatti carico dei fantasmi di ogni generazione, mettendo alla pubblica gogna le contraddizioni della società e le generazioni precedenti.
    Ma quando, negli anni ’80, l’importanza di apparire e le logiche di profitto furono erette a sistema, nemmeno il rock, con le sue urla in faccia allo stile di vita che stava nascendo riuscì a scalfire il posticcio ottimismo di maniera e, anzi, nel clima di euforia, in alcuni casi se ne rese complice ingenuo.
    Ma la merda c’era ancora, e puzzava più di prima, e per contrappasso il decennio successivo, gonfiato a dismisura di solitudine e rabbia, è esploso, sommergendo di liquami l’edonismo, che per qualche anno ha preferito nascondersi nella cella frigo di un supermercato. Certo, poi si è ripresentato, dopo una doccia, profumato e con quel sorriso da squalo. Ma per un piccolo periodo si è proprio cagato addosso.
    Musicalmente, la violenza di Smells non si era mai sentita.
    C’è quel giro di chitarra che è un po’ come una miccia, e poi si scatena l’inferno.
    Non ti serve neanche sapere le parole, per riconoscerti in quella roba lì.
    Oggi, a 25 anni di distanza, dopo che è diventata a tutti gli effetti uno dei pezzi più famosi della storia del rock, è normale che sia depotenziata del suo carico di energia distruttrice e di continua nuova rinascita, se non altro perché, almeno quelli della mia generazione, hanno detto più volte “a denial” di “mamma”.
    Però provate a mettere il CD su un impianto con due buone casse, girate la manopola del volume fino a che non arriva in fondo alla sua corsa, fissatela con lo scotch, così che non si perda un solo decibel, poi fatela partire.
    Ha un tiro che non c’era, che forse non c’è più stato.
    Da lì viene molta roba successiva, e già questo basterebbe per certificarne l’importanza.
    E poi Cobain ha proprio quella voce lì, non è uno scherzo, mentre canta questo sbilenco elogio del perdente, con la rabbia di chi non ha la voglia di diventare qualcosa di diverso rispetto a quello, lontano dalle dinamiche del successo ad ogni costo che già allora imperavano, lontano dal desiderio di fare il VIP ed essere famoso. Ci credo che l’edonismo prese paura. Era un cambio totale di paradigma rispetto al passato, e quelle frasi lì le trovavi sui muri, nei diari, nei cessi dei locali e delle scuole. La più bella era forse questa.
    Sono il peggiore in quello che so fare meglio
    La vedevi dipinta sui volti delle ragazze e dei ragazzi che giravano con quelle camicie di flanella a quadri, i jeans strappati, l’andatura dinoccolata di chi non deve per forza essere perfetto e un vaffanculo sulle labbra. Soprattutto un vaffanculo sulle labbra.
    Ecco il grunge, che più che racchiudere un genere musicale ha fatto da collante per diverse esperienze, diventando una specie di mondo a parte, quasi un movimento culturale, valicando i confini musicali per entrare nella vita di tutti i giorni, nella moda, nella scrittura, nel modo di pensare.
    C’era anche la musica, certo.
    Era quella sporca e alienata, che portava il nome di quel ragazzo lì, timido, introverso, anti idolo per eccellenza nel periodo in cui ognuno voleva come idolo uno così.
    Forse era inevitabile che diventasse portavoce di quell’epoca, proprio perché non c’era in lui alcuna volontà di esserlo, né alcuna velleità di denudare alcun sovrano. Non c’era idealismo, né rivendicazione, in quel rumore violento, solo rabbia, reazione ingenua, sguaiata e incazzosa di un ragazzo con una infanzia un po’ così, in un periodo storico un po’ così, che vide morire gli ideali che avevano sorretto e dato speranza, sostituiti da 50 marche di chewing-gum.
    Ecco perché ti abbiamo creduto tutti, e ci siamo fidati di te, K. Ecco perché, personalmente, ancora ti credo.
    Maledetto, fragile e disperato, figlio primogenito della dicotomia che ti ha fatto leader dello stesso spirito che non voleva leader, e che si è ritrovato suo malgrado vittima e carnefice dello stesso circolo in cui non sarebbe mai voluto entrare.
    Non hai resistito, K. I tuoi demoni ti hanno chiesto il conto.
    Si, è vero, la bastarda ti ha sedotto, come tanti prima di te, ma non è lei che ti ha portato via a quell’età, la solita età.
    Ti sei sparato in facccia, con un altro urlo di rabbia, trasformato in serena e abulica consapevolezza nelle poche righe che lasciasti.
    Sai, quelle scritte che erano sui muri nei cessi delle superiori, per un certo periodo dopo che te ne sei andato sono finite in discoteca.
    Cioè, tu entravi in discoteca e sapevi che a un certo punto partiva il momento rock della serata, e quel tuo manifesto la faceva da padrone. Per certi versi, questo mi rende orgoglioso di essere stato ragazzo negli anni ’90.
    Però era lì, dove forse non sarebbe mai voluta essere, con le camicine che nel frattempo da flanella erano già diventate bianche e fighe, e il pantalone che di strappato aveva solo l’assegno che avevi dovuto staccare per comprarli.
    Si, forse avevi ragione.
    Quello che eravamo è cambiato in fretta, e quell’elogio del perdente, quel tuo essere così diverso dalla rockstar tutta cazzoduro dell’epoca, quel tuo femminismo reale, sono diventati cool e poi sono stati interiorizzati, e l’elogio del perdente hanno iniziato a farlo i vincenti, e la rockstar cazzoduro si è fatta crescere la barba incolta ed è vegetariana, mentre i femministi dicono di esserlo, ma l’impressione è che ci prendano tutti per il culo, perché qui le cose peggiorano, invece di migliorare, e l’edonismo l’ho visto in giro l’altro giorno che si bullava della scena indipendente, in un dialogo a tinte forti con il consumismo, che gli chiedeva se avesse già stampato le magliette con qualche frase storica, e in un angolo il conformismo ascoltava attento per capire come vestirsi stasera per andare a caccia di figa.
    Qualche anno dopo che ci hai lasciato, quando gìà il veccchio millennio era diventato questa cosa qui con il 2 davanti, un libro chiamato No Logo, lodevole, a suo modo, diede vita a un Logo.
    Capisci, K.? Forse non c’era alternativa, era già tutto previsto. Forse non potevamo proprio fare niente di diverso.
    Va beh.
    Come dicevi tu? Whatever, nevermind.
    Però, ecco, dio cristo, se evitavi di farti saltare il cervello, insomma, io lo preferivo.

TESTO E TRADUZIONE

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