Ieri notte ho fatto un sogno.
Roba strana, come al solito capita in quella fase onirica tanto realistica quando ci sei in mezzo quanto improbabile nel momento stesso in cui ti svegli. E che comunque qualche strascico lo lascia sempre, altrimenti ora mica sarei qui a parlarne.
Nel sogno, vado in macchina verso i nonni, sa il cazzo se quelli di mare o quelli di monte, ma non guido io. Ho le gambette troppo corte per farlo, a quanto pare. Son fasciate dentro calze al ginocchio, con i piedini infilati in quelle scarpine nere con i buchetti sul davanti che si allacciano di lato. Son seduto dietro. Mi arrivano le voci dei miei e la musica un po’ ovattata, forse per il sogno, forse per il rumore dell’auto.
E’ lì, in un momento imprecisato tra i sentieri della mente, che parte Tunnel of love dei Dire Straits, ed io proprio la riconosco, e poi o i sentieri si son fatti troppo complicati e chissà che fine han fatto, o mi son svegliato.
Proprio un super sogno, eh.
Mi son svegliato, in ogni caso, con la comune sensazione che ti viene a volte in quei casi lì, come a dire porca troia, era un sogno, è vero, mica ho più sette anni; chissà cosa pensa quel bimbo là di come sono ora.
Lo ricordo bene, quando andavamo dai nonni. Non le singole circostanze, ovvio, ma le curve, i viaggi, lo stare sul sedile dietro, le voci dei miei, a tratti anche l’odore delle auto che guidava mio padre, e quella sensazione di avere tutto da scoprire, tutto da vivere, una meravigliosa vita da adulto che sarebbe stata così figa, e un sacco di persone che mi avrebbero protetto, fatto scudo, aiutato.
Fermala, in casi del genere, la malinconia, se ci riesci.
Pare Messi quando è in giornata e ti punta, quando fa così, e tu, d’altra parte, mica sei mai stato Chiellini.
Perché è inutile. Fan spesso un po’ quest’effetto, i ricordi. Puoi ripensarci con tutta la serenità del mondo, ma alla fine in bocca resta sempre quel sapore che ha la focaccia il giorno dopo; buona eh, ma ieri, appena sfornata, era strepitosa. Oggi, mhe.
Forse è per quello che vien la malinconia. Capita anche più spesso, ora, quando pensi che quasi solo una generazione è rimasta tra te e tutto il mondo fuori e che quello scudo è sempre più sottile.
Oppure è perché hai scoperto che mica è ‘sta gran figata, diventare adulti, e più realizzi che niente dura per sempre, più ti rendi conto che prima o poi il conto sarà da saldare, e riscoprirti cinico ha un prezzo tutt’altro che in sconto, come aver capito che tutti i te che credevi saresti potuto diventare da ragazzino in realtà non sono mai esistiti.
Comunque, è da quel flash di sogno rimasto impigliato alla parte senziente del cervello che son tornati, di nuovo, i Dire Straits, ed è singolare pensare che forse sono un po’ come i tratti genetici che hai ereditato. Erediti l’indole, il colore degli occhi, la voce. E, forse, per una specie di mutazione genetica, le band che ascolti perché le ascoltavano i tuoi quando eri piccolo.
Perché era davvero come nel sogno, in effetti. Tu stavi seduto dietro, ed ogni tanto dal mangianastri usciva ‘sto gruppo qua, e le casse si riempivano di Tunnel of love, probabilmente la prima canzone rock che ti sia piaciuta sul serio, senza nemmeno sapere perché, in fondo.
Forse per l’organo in ingresso, forse per quel pianoforte che indugia e che anni dopo ti è sembrato così familiare sin dal primo ascolto, chissà come mai eh.
Forse perché il rock succede, così, inconfondibile, potente, preannunciato da un crescendo che parte da lontano, come una mandria di bisonti che ti punta e fa tremare lo stomaco prima ancora che il terreno. Lo capisci subito – in un modo o nell’altro – che quella roba lì è destinata a mettere radici tanto profonde da non darti più modo, oggi, di scinderla dalla tua esistenza.
Sia come sia, Tunnel of love rimane un pezzo di una bellezza quasi inconcepibile. Il parallelo tra le giostre rievocate da Knopfler e le inquietudini della vita da adulto è magistrale sin dalle prime parole del pezzo. Attraverso il racconto di un incontro romantico in un Luna Park, Knopfler omaggia il mondo che adora sin da quando, bambino, andava in quello vicino a Newcastle, lo Spanish city, descrivendo l’unica sensazione capace di generare lo stesso stupore, la stessa, feroce sensazione di potenza ed incoscienza provata prima che la maturità ti fottesse la spontaneità.
In un anello di facce urlanti vidi lei ferma nella luce
Aveva un biglietto per le corse, proprio come me era una vittima della notte
Misi una mano sulla leva, dissi lasciamo che giri
Che quando sei bambino, è un attimo “lasciare che giri”. Abbandonarsi alle proprie emozioni senza pensare troppo alle conseguenze. E’ con il tempo, con le prime ferite dell’anima, che diventa più difficile farlo. La paura di soffrire e di mettersi di nuovo in gioco inutilmente fa tirare indietro la gamba, e il retropensiero dominante è che si tratti sempre dello stesso gioco del cazzo. Un gioco del cazzo a perdere. Forse l’esperienza è una gran qualità, ma ha quel difetto di merda di renderti troppo riflessivo, troppo attendista. Meno vitale.
L’estasi della cavalcata rock della band inglese, nel frattempo, si è completamente manifestata, come a chiederti di provare a lasciarti indietro una volta ancora tutte le tue ansie, nel recupero di quell’animo inconsapevolmente coraggioso della fanciullezza. O forse ti pare giusto provare a crederci un po’ di più perché è l’altra persona, quella più guardinga, che aveva ragione quel dritto che diceva che uno non è mai sempre quello, ma è diverso in rapporto alle persone con cui entra in contatto.
E’ il pericolo di quando corri a tuo rischio
Lei disse “sei un perfetto sconosciuto”, lei disse “Baby, lasciamo le cose così come sono
È solo per un Cakewalk, un Twisting, tesoro”, si alzò in piedi e disse
“Hey, capo, dammene due, perché vanno bene per due tipi qualunque”
Due tipi qualunque, niente di speciale. Una veloce relazione sotto le luci intermittenti di quel Luna Park che è l’esistenza, una corsa adrenalinica sulle montagne russe, prima di tornare sulla propria silenziosa – e sicura – strada. Si danno questo, i due protagonisti di questo romanzo rock, senza false promesse né speranze da liceali, e mentre le battute di Mark sulla sua Stratocaster si alternano alla magistrale batteria di Pick Withers, pare quasi di vederlo questo convegno di occhi e labbra e mani e pelle, con i due protagonisti che dapprima si muovono con circospezione, ognuno con il proprio spazio da difendere, poi sempre più integrati, sempre meno prudenti, fino all’estasi dell’unione.
Lei si tolse un medaglione d’argento, disse “ricordami con questo”
Mise la sua mano nella mia tasca, avevo un souvenir e un bacio
E nel ruggito della polvere e del diesel, rimasi fermo e la guardai andarsene
Avrei potuto raggiungerla abbastanza facilmente, ma qualcosa deve avermi trattenuto
Le regole dettate da lei son state chiare fin da subito, niente di cui stupirsi, e, finita l’estasi, non resta che salutarsi. Un ricordo, un bacio, nient’altro. Ma se è lei che se ne va, lui non fa nulla per fermarla, ed ancora una volta, in una sola frase, in una sola parola, si nascondono migliaia di universi, di occasioni perdute, di paura di soffrire di nuovo, di farsi mangiare un’altra volta l’anima.
E ragazza, mi sembra bello proprio come lo è sempre stato
Come lo Spanish City per me, quando eravamo bambini
O ragazza, mi sembra bello proprio come lo è sempre stato
Come lo Spanish City per me, quando eravamo bambini
Sono le parole del bridge, le ultime pronunciate. Senza l’enfasi che le ha mosse negli altri momenti della canzone, come se il rimpianto avesse preso il sopravvento solo una volta realizzato di non aver giocato fino in fondo, di aver interrotto la corsa quando forse c’era ancora qualcosa da vivere insieme.
La voce di Mark si trasforma in un sussurro, perché, beh.
Sembrava bello proprio come lo è sempre stato
Come lo erano le giostre quando eri un bambino. Le giostre non ti deludevano mai, e per qualche tempo hai pensato la stessa cosa dell’amore. Hai pensato che l’amore potesse essere la giostra degli adulti. Fino a che non ti ha deluso così violentemente da farti cambiare idea, così profondamente da mandare per sempre tutto affanculo, così definitivamente da farti chiudere le vene, evitando che il sangue pompasse più forte, anche di fronte a qualcosa che avrebbe potuto farti provare di nuovo quella sensazione.
Potrebbe finire così, Tunnel of love, e probabilmente non sarebbe altro che un’altra grande canzone rock.
Forse ti sarebbe piaciuta lo stesso, fin da quando eri bambino, e seduto sul sedile posteriore della macchina dei tuoi ascoltavi quella voce calda piena di rimpianti mentre dal finestrino passavano le strade che portavano verso le tue radici.
E’ possibile.
Ma non è un caso che sia questa canzone, quella che ti ha battezzato nel nome del rock, del roll e delle chitarre elettriche.
Perché è proprio in questo momento che inizia il vero monologo della canzone, trascendendo sé stessa ed entrando a piedi uniti nel novero dei pezzi migliori di tutta la storia del rock. A Mark non bastano più le parole, che certe emozioni fan fatica a trovare spiegazioni nei vocabolari, figurarsi se ci si riesce in un pezzo.
Le note iniziano a muoversi sinuose, sospinte dalle dita di Knopfler, creando un solo strepitoso, un crescendo di inimmaginabile potenza emotiva, da gustarsi un millesimo di secondo alla volta.
Note dolci come tutte le situazioni non realizzate, malinconiche come i ricordi di quando da bambino credevi che niente avrebbe guastato la tua fiducia nel mondo.
Perché è inutile, fan spesso un po’ questo effetto, i ricordi.
Suonano sempre un po’ come l’assolo finale di Tunnel of love.

TESTO E TRADUZIONE