Da qualche mese mi sono abbonato a Netflix.
L’evento, di per sé risibile, ha portato con sé una gigantesca mole di conseguenze (vita sociale precipitata, occhiaie che neanche a 15 anni dopo la scoperta dell’onanismo, sogni inquietanti a base di serie TV), tutte riassumibili all’interno di un doveroso sticazzi.
Ci tengo però a sottolineare che, a causa di questo abbonamento, l’altra sera, parlando con mio fratello di una serie TV vista sulla piattaforma streaming, The OA, affermavo come alcune opere artistiche non abbiano necessariamente bisogno di una spiegazione, considerando che in certi casi l’esperienza emotiva che stimolano è già sufficiente a giustificarne l’esistenza, come se il plot che viene affrontato sia quasi la parte meno importante dell’opera.
Rimanendo in ambito cinematografico, penso a Melancholia di Lars von Trier, o a Mulholland Drive, di David Lynch. In film del genere, lo spiegone che tutto incasella e tutto sistema è superfluo, se si valuta che l’essenza stessa dell’opera non è quella di raccontare una storia ma di trasmettere emozioni.
Anche nel rock, se parliamo dei più grandi ed escludiamo le band interessate maggiormente al successo che non al messaggio da comunicare, è più facile trovare esempi di artisti che, pur non avendo canoniche “storie da raccontare”, hanno amplificato quello che avevano da dire attraverso distorsioni sonore o versi criptici.
Novelli poeti maledetti hanno partorito liriche visionarie o semplicemente metaforiche, che si sono completate ed hanno assunto il loro pieno significato solo se intrecciate con quell’esatta melodia.
La musica come arte vera e propria.
Non più e non solo accompagnamento alle storie da raccontare, ma messaggio in sé, attraverso l’utilizzo di una scala o di uno strumento ben definiti, perché solo così sarebbe stato possibile “trasmettere” le precise sensazioni volute.
Tra coloro che hanno portato alle massime vette artistiche questa tendenza, ci sono i Joy Division, dai sobborghi di Manchester.
Bernard Sumner alle tastiere e alla chitarra, Peter Hook al basso, Stephen Morris alla batteria.
E Ian Curtis, tormentato ragazzo aspirante poeta alla voce e alle liriche, che, alla fine degli anni ’70, in una del tutto arbitraria linea oscura, si è trovato a metà strada tra il Jim Morrison che fu e il Kurt Cobain che sarebbe arrivato.
I Joy Division nascono nell’esatto momento in cui devono farlo, come tutte le band destinate a lasciare qualcosa di enorme dopo di loro, e muoiono allo stesso modo, portandosi dietro il corpo appeso del ventitreenne Ian, epilettico, depresso cronico, poeta maledetto e nichilista.
Closer esce nel 1980, pochi mesi dopo il suicidio del cantante.
Se il precedente Unknown Pleasures poteva ancora essere collocato nel genere post-punk, con le sue accelerazioni rabbiose alternate a suoni gothic, il capolavoro del 1980 fa storia a sé, diventando una gemma più unica che rara nella storia del rock, già a partire dalla copertina del disco, che riporta la foto di una scultura presente a Genova nel cimitero di Staglieno, come ad indicare un punto di arrivo per molti versi già segnato.
The Eternal è il penultimo pezzo dell’album, ed è probabilmente il vertice massimo dell’espressività della band, a segnare il capitolo finale della loro saga, prima dell’epilogo di “Decades”.
The Eternal è l’apogeo della parabola dei mancuniani, autentico capolavoro nel capolavoro, marcia funebre malinconica e lugubre, dove ogni suono, così come ogni rumore, assumono un’importanza decisiva, ed ogni parola di Ian è più distaccata dalla vita rispetto alla precedente.
I tasti di pianoforte svettano sul tappeto di tastiere, come gocce di pioggia che filtrano da un soffitto decrepito, e la voce di Curtis si fa strumento dell’apatia e del totale abbandono di ogni velleità di lotta contro il male oscuro che si porta dentro.
Niente sfiora più l’animo del poeta, la battaglia è stata definitivamente persa, e non rimane che osservare il lento scorrere dell’umanità, perfettamente consapevoli di non farne più parte, di non essere più in grado di sostenere il peso dell’esistenza bluffando sulla propria radicata insoddisfazione.
Arte pura, nel dramma di un ragazzo già morto dentro.
Il lirismo del poeta si intreccia indissolubilmente e con una precisione maniacale con l’opera musicale, restando scolpita nella pietra come una lapide funeraria. Anche l’ultimo tentativo di urlare per dimostrarsi di essere ancora vivi, posseduti da una rabbia cieca che brucia dentro, non è che impassibile atto descrittivo, funzionale al messaggio.
Perché nessuna parola può spiegare, nessuna azione può risolvere, non resta che guardare gli alberi e le foglie mentre cadono, cullati da una melodia che è una coazione a ripetere, continuo ed infinito abisso in cui sprofondare, manifestazione in musica di tutto quello che non si riesce a spiegare, lucida analisi di uno stato di immobilità a cui non si può porre rimedio se non nel modo più drastico.
Sono tanti gli dei del rock che hanno pagato con la morte il disagio interiore dell’essere artista, e tra loro purtroppo alcuni hanno scelto scientemente di farla finita.
Tra questi, uno ha lasciato un biglietto che parlava di pace, amore ed empatia. Leggere quelle poche righe fa ancora piangere, fa sempre male, fa venir voglia di tornare indietro per fermarlo, dirgli che andrà tutto bene, e che alla fine importa eccome.
L’altro, ha lasciato una canzone come un epitaffio, che rende vane le passioni, cercando di descrivere le proprie. Ascoltarla non fa piangere, non fa male, non fa pensare a come sarebbe potuta andare.
Rende solo immensamente tristi.
L’emozione immortale di Ian Curtis.

TESTO E TRADUZIONE

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