Per dire, il sacco del piumone.
Arriva sempre il momento in cui devi cambiare il sacco del piumone. Esisterà sicuramente un modo giusto per farlo, ma è palese che tu lo ignori, ed ogni volta triboli come un cane.
Tanto che spesso ti ritrovi per metà inserito nel sacco stesso, a scoprire mondi che Narnia a confronto è la pizzeria sotto casa, fino alla decisione drastica: tutto dentro alla rinfusa e poi lunghi scossoni, sperando che l’entropia ad un certo punto allinei i quattro angoli del piumone con quelli del sacco. Nel frattempo, con questa fine tattica, osti tutti i santi, assumi pose degradanti, sudi come ad essere sul Mekong e nella migliore delle ipotesi ti fai saltare la cuffia del rotatore. Però a volte il risultato diventa accettabile.
Accettabile, eh. Mica perfetto. Accettabile.
La scrittura, a volte, necessita dello stesso grado di casualità. Dai un altro scrollone, e speri che tutto si metta in ordine, compresi gli appunti di merda presi in un aeroporto mediorientale, di ritorno da un viaggio di quelli che dici
coglione io a non averlo fatto prima.
Sorridi, mentre guardi i tuoi compagni di viaggio, umanità differenti conosciute per caso, che in pochi giorni son diventati fratelli e sorelle, e che forse torneranno nell’oblio, forse no, ma poco importa, perché al momento per ognuno di loro daresti un occhio. In cuffia son partiti i The Veils, e tu ripensi al deserto e rifletti sul fatto che per la prima volta nella tua esistenza, di fronte a quella roba lì, non hai sentito la necessità di una colonna sonora. Ogni situazione ha la propria colonna sonora, ogni sensazione la propria musica.
Questo hai sempre creduto, ed ora sai che è vero per ogni evenienza, tranne che per il deserto, che quello basta a sé stesso.
Negazione delle emozioni al punto tale da diventare emozione suprema, annullamento totale delle necessità e dei desideri. Forse è perché c’è qualcosa di atavico, in quel silenzio, qualcosa di ineffabile in quell’alba, quando il ripetersi dei respiri ha il proprio tempo, ma nessuna melodia in grado di descriverlo.
La musica, mentre vivi il deserto, non serve.
Già, begli appunti di merda, a riguardarli ora; però più ci pensi più realizzi che forse tutta la musica esiste proprio per restituire una sorta di compensazione a quella sensazione lì, che da quando ti sei lasciato dietro quella sabbia rossa e quelle rocce – così simili alla tua ed allo stesso tempo così diverse – le colonne sonore che accompagnano i tuoi passi son tornate, se possibile ancora più prepotenti.
Una, in particolare, ti gira in testa ancora adesso.
E’ la stessa che era presente in aeroporto mentre scrivevi, la stessa che hai ascoltato poche ore dopo aver abbandonato il posto in cui ti sei sentito più a casa da almeno sei anni, mentre il sole riusciva a scaldarti anche a quattrocento metri sotto il livello del mare.
Sarà che alla fine la musica trova sempre la forza di legarsi indissolubilmente a posti e ricordi, deserto compreso, anche se in ritardo.
Sarà che le note di Sit down by the fire dei The Veils sembrano una foto in controluce, con il fuoco, le sagome, il rosso dell’alba; una di quelle foto che poi le riguardi e ti sembra di esserci ancora dentro, e diventa naturale mischiare ricordi e sensazioni.
Comunque, i The Veils vengono da lontano.
Proprio geograficamente, intendo, che Finn Andrews, il fulcro della band, è un neozelandese trapiantato a Londra, figlio del tastierista degli XTC, avvezzo quindi alla musica fin dalla culla, che come imprinting non fa mai male, e come tutte le band in cui uno dei componenti funge da deus-ex-machina hanno cambiato più line-up loro che partner Bobo Vieri, sempre con Finn al centro della scena.
Nel 2009 pubblicano il loro terzo album, Sun gangs, e quella canzone lì è l’unica del disco prodotta da Bernard Butler, che, dopo aver dipinto assieme a quel fenomeno di Brett Anderson un pezzo degli anni novanta con gli Suede, ha ben pensato di insegnare alla nuova onda indie-rock anglosassone come si produce musica di livello.
Sit down by the fire apre l’album come aprisse le porte dello Shangri-La. Pressioni calibrate di tasti bianchi e neri che escono dal buio, mentre le bacchette solleticano il charleston, prima che la chitarra lasci entrare un filo di luce sempre più spesso, e Finn con la sua voce così caratterizzata e gonfia di riverbero dia colore – rosso, giallo, arancione – all’ambiente. Ogni parola è importante, nella prima strofa, tanto che la somma delle stesse restituisce un significato superiore rispetto al loro valore singolo.
Dicono sia poesia, a volte, roba del genere.
Nato dalla notte nel vento ruggente, gettato fuori dalle ombre da una mano sconosciuta
Scaldato dalle luci di questi rami caduti, ubriaco di tristezza per un universo incustodito
La notte di Finn non fa paura, le ombre da lui descritte proteggono invece di deprimere, e il vero pericolo è uscire allo scoperto. Ma sia uscire allo scoperto che cercare uno straccio di riparo, nelle parole di Andrews sembrano processi del tutto casuali. La mano sconosciuta, i rami caduti, non sono altro che avvenimenti che capitano e basta, senza una logica che li guida, e la presa di coscienza di far parte di un universo incustodito, dominato da una serie di eventi fortuiti che indirizzano l’esistenza, trasmette una sensazione di impotenza difficile da ignorare.
Attraverso l’acqua lei si aggrappa a me, e nel karma che aumenta la sento al mio fianco
Mio padre sta cantando tra le foglie che cadono, sulla complicata bellezza di un fiume prosciugato
Sembra sempre di poterla cavalcare, questa vita, in certi momenti, domando le possibilità, diventando padroni del proprio destino. Capita, a volte, con un’altra persona al tuo fianco, e ti pare di poter quasi trovare un senso, un’armonia di fondo, ma chi c’è passato prima di te ti mette in guardia, che l’autunno arriva anche per gli affetti, e quel fiume prosciugato sa tanto di cose che già conosciamo, che fanno pensare a quello che era e che non è più, e poco importa se quei letti seccati son belli come solo la malinconia a volte sa essere, forse vuol dire che la risposta, in fondo, non era quella.
Forse vuol dire che la risposta non c’è e basta, e la vita mica la riesci a domare per sempre, puoi riuscirci per un po’, ma alla fine vince sempre lei, e quando tira i dadi ti convien sperare che girino bene, altrimenti amen, ci sarà da farsene una ragione.
E mio padre sta cantando tra le foglie che cadono
Che non c’è uscita da questo vecchio mondo, neppure se ci provi
Sembra dica proprio così, Finn. Qui sei capitato, per culo o per sfiga, questo è quello che ti è toccato in sorte, se ti va bene è così, altrimenti è così lo stesso.
Allora semplicemente siediti di fianco al fuoco
Siediti di fianco al fuoco
Non c’è modo di avere quello che voglio
Alza le spalle, scaldati per quello che puoi, e prendi atto che quello che vuoi non esiste.
Forse è per quello che mi continui a girare in testa, canzone.
Sì, vero, ti ascoltavo in quei momenti là, ricordando le ore in cui non avevo bisogno nemmeno della musica, e forse avresti potuto essere qualsiasi altra melodia accattivante e ruffiana.
Ma se l’entropia ha messo ordine – per puro caso – in queste parole, se il sacco a furia di scrollarlo ora fitta precisamente – o quasi – con il piumone, se davvero tutto è dominato dalla casualità, ed un viaggio potenzialmente simile a tanti altri si è trasformato in un’esperienza spirituale accompagnato da persone della madonna per una clamorosa botta di culo, se sul serio non c’è rimasto nulla in cui credere, e tutto quello che voglio forse non esiste nemmeno, ti dico una cosa.
Io credo in te, canzone, e credo in tua madre, la musica, e in tutti i tuoi padri, gli artisti.
Che sei corsa fuori dal deserto, oltre lo spazio ed il tempo, e dal 2009 sei venuta a prendermi a fine 2018, quando non avevo niente di quello che volevo, e quindi avevo tutto.
Sit down by the fire
