E’ che poi alla fine va sempre come vuole andare.
Pensavo che una vacanza a Londra mi avrebbe ispirato qualche ricetta sui Clash, e infatti mi ero caricato sul telefono molto del tutto di Strummer e soci.
L’idea era quella di sfruttare il ritorno nella capitale inglese per chiudermi un pomeriggio in un pub o uno Starbucks, portatile aperto davanti, e iniziare a dipingere parole con la vanagloria di un hipster del cazzo.
Ma alla fine ho evitato questo pericolo, girando la città in lungo e in largo, e anche se Londra non è più così cool come una quindicina di anni fa, almeno nell’immaginario collettivo, è comunque sempre meravigliosa.
Anzi, a ben pensarci, nessun posto al mondo è più così cool, da quando puoi andarci facilmente e trovare la stessa merda che trovi qui, solo con fonemi diversi.
Sarà anche comodo, questo mondo globale, ma di sicuro è meno romantico. E fa un po’ cagare.
Anyway.
Alla fine, dicevo, tutto va come vuole, deve, può andare, e così scrivo questo pezzo non in un locale a Camden Town, ma su una sedia a dondolo a casa dei miei, mentre un orso modello Tedddy Bear mi guarda come a prendermi per il culo.
Inoltre, non si parla neanche dei Clash, perché tra noodles e autobus a due piani è spuntata una regina.
Bassa, con una corona di capelli neri in testa, tatuaggi come fossero murales e la personalità delle predestinate.
Amy.
Non conosco il mondo inglese in modo profondo, ma la sensazione che ho provato girando a Camden, il quartiere che l’aveva adottata, è stata quella di un popolo devoto a questa regina bastarda, che in pochi (troppo pochi) anni ha ridisegnato la geografia musicale pop, soul e rithm’n’blues, diventando musa ispiratrice per molte cantanti dopo di lei.
Entri in un locale, e senti lei. Giri per strada e ci sono decine di sue magliette. Ti perdi tra le bancarelle dei mercatini e nelle orecchie hai sempre questa Billie Holiday degli anni 2000.
Love is a losing game. Just friends. Rehab. Back to black.
Un eterno requiem pagano.
A me Back to black ha sempre fatto quell’effetto un po’ così, tra la commozione e l’orgasmo.
Back to black, l’album, esce nel 2006, e questo scricciolo di donna, alta un metro e uno sputo, fa il botto.
Ma non si tratta di un’operazione commerciale come quelle cui la musica pop ci ha abituato da troppo tempo.
Questa è buona sul serio. Piace a tutti. Piace la sua voce, struggente e paradisiaca, piace il suo stile punk, piacciono i suoi testi, autobiografici e reali.
E’ straordinaria.
E la title track è così perfetta da racchiudere un mondo intero.
Le relazioni personali sono complicate quando funzionano, figuriamoci quando ci si aggiunge il carico da 90 di un abbandono.
Amy aggiorna il registro dei capolavori in musica sul tema, e 20 anni dopo Alanis Morrissette scandalizza con la sua verità sulla fine di una relazione.
Il pianoforte ritmato introduce la voce di questa strepitosa artista, che con poche frasi già ci porta nel nero reale successivo alla fine di una storia.
E’ dura, quando il tuo partner non si da nemmeno il tempo di elaborare il lutto, e volta pagina come tu ancora non riesci a fare, è’ dura sentirsi sostituita, peraltro da un passato che ritorna, forse perché il presente è troppo complicato per scendere a patti con esso, e il già vissuto rappresenta quella comfort-zone che sembra la panacea di tutti i mali.
L’interpretazione di Amy suona così vera da gelare il sangue, se si pensa a come finirà la sua storia.
Dopo essere morta un centinaio di volte, ed essere sempre rinata nella malcelata speranza che la fine non fosse davvero una fine, la realtà fa male come aghi negli occhi.
Lui torna da lei, e tu, tu torni nel buio, nella disperazione, nel lutto. Definitivamente, questa volta.
Non c’è speranza, nella voce di Amy, solo rassegnata, ma non per questo meno dolorosa, accettazione.
E’ tutto in poche righe.
“Tu ami tirare, io amo soffiare”, dice lei, ed è naturale pensare al mondo dissoluto che circondava Amy, alcol, droga, eccessi, ma se si esclude il geniale gioco di parole, non è proprio così?
Spesso si dice che gli opposti si attraggono, ma penso che fra tutte le stronzate questa sia una tra le più grosse. Possono interagire, gli opposti, ma non scegliersi con cognizione di causa.
La chimica è una cosa, la vita un’altra, e in una relazione uno dei due prima o poi deciderà di abbandonare la strada della passione per la strada della ragione, avvicinandosi a chi è più simile.
E poi ancora “La vita è come un tubo, e sono un piccolo penny che prova a risalirlo dall’interno”.
Era fragile, Amy. E intelligente abbastanza da capirlo. Le delusioni, queste piccole merde che si attaccano alle pareti degli organi interni come tumori, alla lunga ti sfiancano, e puoi anche capire la difficoltà di uscire da questo circolo, ma questa sola comprensione non basta ad uscirne veramente.
Ti senti piccolo, e le difficoltà da superare sembrano insormontabili.
E sai benissimo che da quel nero non uscirai più.
Io non so se fosse davvero un grido di aiuto, quello di Amy, come molti hanno detto.
Nel caso, non sarebbe stato l’unico. Tutti i suoi testi sono fortemente autobiografici, e a posteriori è facile leggervi la depressione, il cinismo e le difficoltà di questa fantastica ragazza.
Resta che ci ha lasciato presto, all’età in cui i più grandi lasciano di solito, vinta da un cocktail di questo e quello, per il gusto torbido dei magazine interessati alla sua vita turbolenta quasi più che al fuoco del suo talento.
Un fuoco che è bruciato in fretta, come in un copione già scritto per farla diventare icona.
Una piccola, fantastica, icona nera.
Amy Winehouse, Artisti Stranieri
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