Negli anni ’90 la scena di Seattle ha letteralmente divelto i cardini sui quali il rock si era appoggiato.
Dici Seattle, anni ’90, pensi Nirvana.
E ci arriveremo, promesso.
Ma quel periodo che prende il nome di “grunge-era” è stato molto più della band di Cobain e Dave Grohl.
Quello che ad esempio i Nirvana reinventano come punk aggressivo e metallico, i Soundgarden interpretano in chiave più vicina ai classici anni ’70, mentre i Pearl Jam gettano le basi per diventare la band erede dei mille volumi dell’enciclopedia del rock.
Impossibile quindi etichettare il grunge come stile musicale.
In tutto questo, gli Alice in Chains sono quei figli bastardi del rock che ti trascinano verso il basso, al buio, con suoni grevi e alienanti, spesso rallentati. Ispirazione heavy metal aggiornata agli anni ’90.
Ora, lo ammetto, sarebbe bello scrivere la storia su come sono entrato in contatto con gli Alice, tipo quelle presenti in alcune ricette passate.
Un afflato di romantica malinconia, ricordando la scoperta di questo gruppo che ancora mi porto dentro.
Un amico, una ragazza, un viaggio, forse.
In realtà, non ricordo con precisione quando iniziai ad ascoltare Cantrell, Staley e soci.
Penso sia stato tardi.
Ma tardi tardi.
Tipo nel 2002.
O forse era il 2001.
Non so, ero spesso ubriaco, all’epoca.
Comunque, Down in a Hole fu il primo pezzo che conobbi.
C’erano già questi piccoli lettori MP3. Costavano come un rene al mercato nero e portavano 32MB di memoria, e siccome ero spesso ubriaco, ne comprai uno.
32MB, 6 canzoni. Per qualcosa come 200 euro.
Quando uno è idiota, è giusto esserlo in grande.
Immaginate inoltre la difficoltà di dover scegliere 6 pezzi 6, per rendere meno noioso il viaggio Castelnovo-Reggio in corriera. Impresa sempre titanica. Forse sono quei pensieri che mi hanno fatto perdere i capelli.
Sta di fatto che, da quando la scoprii, per molto tempo una di queste 6 è stata Down in a Hole.
Mi piaceva l’incedere del brano.
Adoravo la voce rabbiosa e satanica di Staley sovrapposta a quella di Cantrell, paranoica, in uno dei tipici canovacci del gruppo, prima che Staley da solo eruttasse nel suo canto potente e passionale.
Mi piaceva il titolo.
Giù dentro a un buco.
Una dolente ballata che assume la forma di una inutile preghiera, di una litania profana, che parte tranquilla con un arpeggio di chitarra quasi consolatorio, ma che già dalle prime parole si rivela per quello che è davvero, un canto di morte e disperazione.
Seppelliscimi dolcemente in questo grembo.
Come se fosse possibile fuggire dalle difficoltà ritornando allo stato precedente alla nascita, pur consapevoli che quel grembo, a questo punto, non sarebbe una nuova occasione, ma solo una sepoltura.
Il buco è profondo, è quasi impossibile trovare salvezza da dove sei ora, il cuore si è già rassegnato alla fine e la delusione per non essere stato quello che gli altri, ma soprattutto se stessi, avrebbero voluto è così forte da distruggere ogni speranza.
E’ una dichiarazione di sincera impotenza, quella di Staley, tipica del lirismo degli Alice.
Pur riconoscendo la strada giusta, pur agognando quello che si dovrebbe fare, non si ha la forza per farlo. E il biasimo verso sé stessi aumenta proprio per questo motivo, trascinandoti ancora più in basso.
Volevi, non ce l’hai fatta.
Fuck.
Ho mangiato il sole e ora la mia lingua è così bruciata che non sento più alcun sapore, e la colpa maggiore è quella di essermi fottuto da solo, sentenzia Staley.
E’ un’altra volta un mettersi a nudo di fronte al mondo con l’unica arma che si conosce, una specie di disperato tentativo di offrire in sacrificio al rock la propria anima, per salvarsi.
Si scrive per quello, vi direbbero in molti.
Se di quei molti, parecchi fossero qui a dirlo, e non morti ammazzati, perché i doni offerti in sacrificio non bastano mai.
Staley se lo prese la bastarda, altro martire vulnerabile e geniale del rock and roll.
Staley, con la sua voce che avrebbe potuto creare le terre di Atlantide, per poi affondarle assieme ad un riff di Cantrell.
Staley, che sarebbe potuto andare a prendere un caffè con Gesù Cristo, discorrendo con una sigaretta in mano di alienazione, obiettivi falliti e improbabili vie di fuga dalla croce che ognuno si porta addosso.
Finì invece dentro quel buco, che già sapeva essere lì per lui da molto tempo.
Alice in Chains, Artisti Stranieri
Down in a Hole
