E’ naturale che tutta la musica che una persona ascolta non appartenga necessariamente al circolo di gruppi che si seguono abitualmente, tanto da potersi definire fan. Anzi, spesso si è rapiti da un singolo album, o un singolo brano, senza per questo seguire ogni lavoro dell’artista che lo ha prodotto.
Sono quelle frequentazioni tipo amicizie sporadiche, quelle che per motivi contingenti ci si vede poco, ogni tanto per strada non ci si saluta nemmeno, poi capita di passare assieme una bella serata davanti ad una birra, e via così.
Non ti mancano mai, questi amici sotto forma di musica, ma quando li ritrovi sei contento di averli intorno per qualche ora.
Sono circa otto anni che io e i The Killers siamo questo tipo di amici.
Fu un bell’autunno, quello del 2008, e tra la musica che ascoltavo maggiormente in quel periodo c’era Hot Fuss, il loro album d’esordio del 2004.
Ma l’inizio del 2009 non fu un granché, anzi, fu una merda, e probabilmente i ragazzi di Las Vegas finirono sul mio “scaffale di musica del passato” anche per questo motivo, perché visto che ogni circostanza della mia vita ha una colonna sonora ben definita, per non dire simbiotica, quando mi sono trovato ad affrontare momenti difficili l’unica soluzione possibile è sempre stata quella di allontanarmi da quelle note troppo intrecciate con le esperienze vissute.
Credo che ogni singolo pezzo abbia il proprio sapore, e penso che quando il presente che si vive non corrisponde più al passato in cui quel brano era gustoso come un pezzo di focaccia, il sapore che assaggi sia quello di un pezzo di carne avariata, perché i ricordi a volte fanno male.
Ora, non ho fatto un conteggio dei singoli concetti affrontati in questa rubrica, ma credo di poter affermare che uno dei punti cardine delle impressioni che butto giù sia il tempo.
Eccola, la cosa figa di questa stronza esistenza.
Il tempo passa, e passando rimargina, e cura, e anestetizza.
Ti riporta alla vita dopo qualche bastonata di troppo, e ti permette di tornare ad ascoltare quel gruppo che ti ha accompagnato per un po’, prima che lo chiudessi in dispensa, perché faceva un po’ male, e usare la carta vetrata sopra le ferite è davvero un eccesso di sadismo.
Certo, mica ti svegli un giorno e pensi che puoi tornare ad ascoltare quella roba lì. Serve un po’ di fortuna, e già questo è un buon motivo per ascoltare la radio, di tanto in tanto.
Ma in questo caso è stato il messaggio di un’amica, con la foto “guarda cosa ho ritrovato” di un CD che le avevo fatto tanti anni fa, quando ancora si usavano questi dischi volanti con il buco in mezzo, un CD che iniziava con All these things that i’ve done.
Che se il titolo non ti dice niente, è uno di quei pezzi, che quando poi lo ascolti dici “aaaahhh, ma è questa!”.
Quando inizia però mica lo capisci, e d’altra parte nemmeno percepisci la potenza terapeutica che può esercitare, perché inizia un po’ così, con quel tasto bianco di pianoforte accarezzato due volte, mentre la voce di Brandon Flowers, leggermente effettata, ti dice di resistere, se puoi.
E sembra proprio il solito testo nella solita situazione, e sì, forse lo è, ma entra la batteria, le tastiere fanno il loro dovere, il riffettino di chitarra è ruffiano al punto giusto, e la senti montare dentro, e ti ritrovi a pensare che, cazzo, sarà anche pop, ma è proprio fatto da dio e questi sembra che ci sappiano fare.
E’ dura, canta Brandon, quando hai il cuore spezzato, e la testa esplode sotto i colpi dei mille pensieri che la affollano.
Testa e cuore, che si influenzano a vicenda, con quest’ultimo che si raffredda ogni giorno di più, e la mente che si domanda che senso abbia prendere a pugni i muri fino a rompersi le mani.
Aiutami, chiede, all’ingresso di un ponte-ritornello in crescendo, e forse l’aiuto richiesto è quello che devi dare a te stesso, evitando di mettere da parte le emozioni, anche se prima o dopo saranno faticose e dure da affrontare.
Penso sia davvero la verità quando affermano che non si smette mai di imparare e crescere, perché l’esperienza maturata può anche essere tanta, ma lo spirito se è abbastanza curioso ha continuamente fame e non invecchia mai, e vagli a spiegare ad una emozione che hai 40 anni e non 20.
Se non mantieni l’equilibro tra ragione e istinto, e nascondi il cuore, finirai per crollare, ti dice.
E poi, si ferma tutto. O quasi.
Resta una chitarra, in attesa.
L’attesa di una scintilla, che arriva con quello che negli anni è andato oltre un semplice verso di una canzone, per diventare immaginario collettivo.
Ho un’anima, non sono un soldato.
Che in italiano fa un po’ scago, ma se lo metti in inglese quell’attinenza fonetica tra SOUL e SOLDIER fa tutta la differenza del mondo.
I got soul, ho un’anima, come a dire che sono umano, provo emozioni, vivo.
I’m not a soldier, non sono un soldato, non sono uno schema, non sono un numero, non prendo ordini.
Lo ripete 10 volte, Brandon, mentre cresce, e cresce, e sembra non smettere mai di crescere, e entra anche un coro di donne con una energia che vorresti ridere, e sarò io che ascolto più musica in macchina che in qualsiasi altra situazione, ma qui viene proprio da accelerare, sorpassando l’uomo con il cappello nella Panda che hai davanti, abbassare il finestrino e mettere fuori un braccio, a sentire l’aria, che l’anima l’abbiamo tutti e usarla fa bene.
E quindi resisti, se c’è da resistere, perché viene da lì, tenere botta, non dalla ragione, che se ci pensi davvero a modo come cazzo può piacerti vivere in questa merda, ma se ti lasci andare un po’ e ogni tanto vivi di pancia, puoi resistere.
Con tutte queste cose che hai fatto.
Con il tempo, la verità e il cuore.
Se puoi, resisti.

TESTO E TRADUZIONE

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