Capita che la mente degli artisti sia stimolata da alcune domande non banali, a cui dare seguito con creatività.
Stephen King, ad esempio, è il sovrano del “supponiamo che”, ovvero quella singola curiosità per un avvenimento sulla quale costruire universi paralleli, plausibili o meno. Che poi nel caso del Re spesso si finisca tra virus letali, pagliacci non proprio rassicuranti, mucchi d’ossa e ossessioni è un altro discorso.
Ma il what if… non è prerogativa assoluta dello scrittore di Bangor, e anche la musica deve la sua dose di gratitudine a questo espediente narrativo.
David Bowie nel 1972 regala al mondo, come fosse normale, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, uno degli album più significativi e straordinari della storia del rock, e il primo pezzo dell’album è in effetti un gigantesco supponiamo che… messo in musica.
Odora di capolavoro, come solo certe opere sanno fare, e risponde al nome di Five Years, cinque anni, quelli che avanzano al mondo prima dell’inesorabile fine.
Immagino questo sia uno di quei pezzi che quando lo hai finito di scrivere sei consapevole – devi esserlo – di aver composto qualcosa di pazzesco. Io voglio pensare che sia stato così, e che Bowie quando la completò, sorrise, pensando a come avrebbe reagito la gente a quella batteria che viene da lontano e che lontano tornerà, come fosse una ruota destinata a percorrere in eterno la stessa circonferenza, a come si sarebbe riempita di pathos l’atmosfera su quel pianoforte che entra con un incedere drammatico, a quel crescendo maestoso del canto e delle parole.
La voce di David gonfia di riverbero prende in fretta la scena, come se lui fosse su un palco di teatro deserto, illuminato da un occhio di bue che non riesce a staccarsi dalla sua figura.
Che poi, il Duca Bianco ha un registro vocale forse addirittura sottovalutato, rispetto alle sue naturali doti di intrattenitore e artista geniale, perché in questo pezzo recita sì come un attore ma canta anche come un dio, mentre narra una storia distopica, sarcastica e di amore incondizionato per la vita e l’umanità.
E quindi cosa succederebbe se si venisse a sapere che alla Terra avanzano solo 5 anni di vita, prima di una inesorabile fine?
David gira per le strade, in mezzo ad una confusione palpabile, mentre le madri piangono e l’incredulità lascia presto spazio alla disperazione, quando anche un giornalista TV, in lacrime, comunica la notizia, che se lo dice pure la TV, allora come oggi, ci credi un po’ di più, inutile negarlo.
Tra 5 anni sarà tutto finito.
Che se ci pensi mentre sei a casa a guardare una puntata di Bojack Horseman sembrano un sacco di tempo e dici va beh, ma se ti fai prendere la mano e immagini che la fine sia distante milleottocentogiorniespiccioli sono cazzi, quel lustro diventa un conto alla rovescia veloce come Bolt.
E la bramosia di vivere si fa sentire con tutta la sua forza, e quelle cose che hai sempre dato per scontate, o futuribili, diventano di colpo urgenti.
Gli affetti, cazzo, il primo pensiero. Il telefono, a simboleggiare la necessità di tenersi in contatto con le persone che contano sul serio, come a non voler lasciare conti in sospeso.
Ma l’ansia morde il freno, le sinapsi accelerano. Viaggi non fatti, libri non letti, cose non scritte. Sembrava ci fosse tempo, mentre sopravvivevi in attesa di qualcosa che forse non sarebbe mai arrivato, ma ti pareva di avere ancora tutte le porte aperte. E invece ora no, c’è da correre, sentire, conoscere, guardare, assaporare. Ma non c’è posto per tutto, non potrà mai esserci, quando il tutto ha una scadenza, e l’odore della fine si fa sempre più pungente, come una nube tossica che ti ruba inesorabilmente sempre più aria.
La mia testa mi faceva male come un magazzino che non avesse più spazio
Dovevo stipare così tante cose e immagazzinarle tutte li dentro
E tutta la gente magra e grassa, e tutta la gente alta e bassa
E tutti i nessuno, e tutti i qualcuno
Non avrei mai pensato di aver bisogno di così tanta gente
E tutte quelle persone, là fuori. Che sono sempre state solo ombre, fugaci apparenze di sottofondo all’esistenza più importante, la tua, ma che ora diventano centrali. Ti sembra di aver bisogno di ognuno di loro, e mentre la fine si avvicina l’empatia si sviluppa come un settimo senso, che morire da soli fa schifo al cazzo, e osservando per la prima volta negli occhi gli altri le tue stesse paure, le tue stesse ansie, scopri che non siete altro che fratelli nello stesso viaggio.
Come se ogni altra persona non fosse che uno specchio riflettente, e una macchina ai raggi-X svelasse l’autentica figura di ogni persona, portata a mostrare davvero il proprio volto, ed ecco una ragazza che dà fuori di testa e bastona un bambino, e fortuna che interviene un uomo di colore, che altrimenti finiva in merda; ecco un soldato che sogna una fuga impossibile, e poi un poliziotto che si scopre purificato nella spiritualità di un supposto Dio, mentre un travestito è disgustato da questa immagine, alla faccia della comprensione delle diverse personalità di ognuno.
Sembra tutto alla rovescia, in questo mondo che sta finendo, come a significare che una volta saltate le convenzioni sociali basiche non resta che la mera anima di ognuno, che può essere buona o malvagia indipendentemente da razza, sesso e professione, da nazionalità e orientamento politico e inquadramento sociale.
Come a dire, anche, che non si può sapere come si comporteranno le singole persone di fronte alla morte. Non si può sapere niente, fino a che non capita a te.
Al pianoforte, nel frattempo, si sono aggiunti i violini, a comporre una tensione emotiva ulteriormente incrementato dalla voce del Duca, che cresce di tono, mentre nel nichilismo più sfrenato alcune persone proseguono la propria vita come se la nave non stesse affondando, e anzi dalle vetrine si lasciano andare a saluti e sorrisi, e chissà che non abbiano ragione loro.
Ma fuori fa freddo, piove, e vorresti tornare a casa, dove non c’è un mondo di merda che sta finendo e il futuro non è scritto. Vien quasi da sperarci, che sia tutto un sogno.
E invece no, pare sia davvero tutto reale, e l’irreparabile aggredisce veemente i tuoi sensi, mentre David insegna all’universo come si interpreta e vive una canzone sulla propria pelle, e il crescendo del pezzo ti pervade ogni secondo di più, che se ci rifletti sul serio nulla avrebbe più senso, bellezza, razza, comunicazione, non ci sarebbe niente da proteggere o raggiungere, solo una fine da aspettare, unica eredità rimasta.
Abbiamo 5 anni, impressi nei miei occhi
5 anni, ma che sorpresa
Abbiamo 5 anni, la testa mi fa malissimo
5 anni, è tutto quello che abbiamo
E diglielo, alla testa che ti esplode, nell’iniquo spazio di disperazione che brucia nel pianto di David. Diglielo, che sta finendo tutto, e vedi se non è una sorpresa, scoprire di non avere nient’altro che attendere la fine.
Allora forse aspettare nel modo giusto sarebbe l’unica scelta saggia, vicino alle persone che ti ritrovi come compagni di viaggio, la mente sgombra da invidia, pregiudizi, rabbia, che morire con l’anima incazzata è da stronzi, figurarsi attendere la morte col nervoso che morde le ragadi. E se ci pensi davvero, davvero bene, se astrai il tuo momento e ragioni come ad avere in testa tutti gli universi paralleli possibili, sei sempre sull’orlo dei tuoi 5 anni residui, che siano venti minuti o una mezza dozzina di decadi. Vien da sorridere, no?
Che se quei 5 anni fossero pieni di pezzi del genere, se ti va di lusso vicino a qualche persona che ti viene per forza in mente, se ci pensi, fanculo, basterebbe sedersi, aspettare, godere.
Artisti Stranieri, David Bowie
Five Years
