Spesso ho denigrato quel periodo storico che passa sotto il nome di “anni ‘80”, intendendo con esso la tendenza a vestirsi di merda e la costanza con la quale si è provveduto a cercare di distruggere il pianeta, tramandando ai posteri stili di vita e impostazioni socio-economiche discutibili, dove per discutibili intendo vaffanculo.
Anche musicalmente, ammetto che non si tratta del mio decennio preferito, probabilmente perché essendo nato nel 1977 sono figlio degli anni ’90, che stanno agli Ottanta come Satana sta all’eucarestia.
Bisogna però riconoscere che in quel decennio venne prodotta musica di altissima qualità; il problema è che in alcuni casi è invecchiata maluccio, a causa delle tecniche di produzione che privilegiavano suoni tanto sintetici che neanche le tute in acrilico.
Soprattutto, se l’eredità che viene tramandata è a base di “I like Chopin” e “Vamos a la playa”, è anche facile pensare che fosse tutto un pianto.
Non è stato così. Non tutto e non sempre.
Negli anni Ottanta, ad esempio, c’erano i Cure.
Dici poco.
I Cure sono uno di quei gruppi che un maschio della mia generazione conosce dopo.
Non nego che il primo approccio che ebbi con loro fu per merito di quello straziante capolavoro di amore e vendetta che fu “Il Corvo”. Provateci voi a non esaltarvi mentre il rimpianto Brandon Lee salta di palazzo in palazzo sulle note di Burn. Che poi, bisognerebbe anche aprire un capitolo sui gruppi che si vengono a conoscere per merito delle colonne sonore dei film, che certe volte ti chiedi se quella scena avrebbe la stessa portata con un’altra musica.
E’ un tema che va affrontato, ne sono consapevole, e prima o poi cercherò di porre rimedio.
Sta di fatto che i Cure una volta che in un modo o nell’altro (l’altro modo è sempre attraverso una ragazza, che loro hanno una sensibilità a 15 anni che tu raggiungi solo a 40, ma anche no, purtroppo) non te li scrolli più di dosso, e tra un album capolavoro (Pornography) e un altro (Disintegration) buttano lì dei singoli tesori che ne fanno, nel complesso, una della band migliori della storia.
Una di queste gemme è del 1987 e Robert Smith e i suoi la buttano lì come fosse normale, e se non siamo dalle parti delle canzoni fantastiche e dove trovarle poco ci manca.
Batteria in apertura, linea di basso che basterebbe ascoltare solo quella per rimanere rapiti per ore, arpeggino di chitarra che si apre e dà corpo all’esistenza, e poi, mentre le tastiere descrivono meglio di tanti discorsi cosa volesse dire fare musica di qualità negli anni ’80, un riff che sembra di essere già in paradiso a sognare un mondo migliore.
E infine Robert Smith. Etereo, acqueo, meraviglioso Robert Smith, che inizi con quella strofa lì.
“Show me, show me, show me how you do that trick”.
Travolto.
Sei già travolto, è inutile.
Lasciati andare, allora, che entrare in piena sintonia con questi tre minuti e mezzo fa male al cuore e bene all’anima.
E chi non ha mai voluto che proprio quella lì ti dicesse che la fai stare da dio?
Lei, che hai sempre voluto ti abbracciasse con un trasporto ebbro di gioia, nella dichiarazione d’amore più bella possibile, che viene fuori naturale come una risata. Quella stessa risata che quando la senti cura il dolore, rimargina le ferite, chiude il buco dell’ozono, risuonando dallo stomaco fin su alla gola.
Lei, che ti spaventa così tanto da renderti a tratti distante, perché la paura esiste solo se si ha qualcosa da perdere, e con lei c’è da giocarsi una mano così pesante che se fossimo a Texas Poker a Phil Hellmuth tremerebbero anche le unghie dei piedi.
A volte sembra quasi di essere sull’orlo del baratro; troppo da vincere e troppo da perdere bloccano le sinapsi peggio di una serie di clic su un PC Windows già impallato di suo.
E se è capitato che la tua anima vinta dalle paure l’abbia fatta allontanare, la presa di coscienza dell’addio è quasi come risvegliarsi da un sogno.
Lo stesso sogno dove forse non riuscivi bene a focalizzare la sua importanza, e quanto ti facesse stare bene il fatto di farla stare bene, in un continuo mutuo soccorso, è adesso chiaro e limpido.
Ed è un po’ come essere stati addormentati in un’altra dimensione per così tanto tempo da aver scambiato la realtà con il sogno, dimenticando quale sia il vero e quale il falso.
Resti disorientato, quasi non riconoscessi la terra che hai sotto i piedi come concreta. Quel sogno ti manca, che quello che prima era confuso ora è evidente, ed è come se una luce bianca raffreddasse il tuo cuore di colpo, rallentando il flusso sanguigno.
Tutti quei dubbi, cercando un equilibrio tra felicità e paura. E ora, sembra quasi che nulla abbia più senso, mentre il ricordo di lei annega dentro di te.
Ma forse ogni relazione non è nient’altro che ballare sul bordo di un precipizio in riva al mare in una notte di luna piena, prendendosi dei rischi, consapevoli del fatto che la fine potrà arrivare in ogni istante, ma senza mai fermare la danza, continuando a nutrire quel sogno da illusi, che bisogna essere pazzi per affidarsi completamente all’abbraccio di un’altra persona mentre il bordo dello strapiombo è così vicino, ma forse, se esiste un paradiso, deve essere una roba tipo quella.
Poco sicuri, con le vertigini, indecisi se guardare di sotto o dritto negli occhi di quella persona, mentre i piedi sgarbellano e qualche piccolo sasso cade di sotto, occhi negli occhi, a sorridere come gonzi.

TESTO E TRADUZIONE

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