Mi trovo in una stanza che probabilmente era già vecchia ai tempi dell’Amaro Ramazzotti e della Milano da bere. C’è un odore persistente di cibo da mensa d’ospedale che mi lascia perplesso.
Poco male. Certi ambienti si intonano quasi per assioma agli stati d’animo, ed in questo momento chiedere qualcosa di diverso, tipo più allegro e figo, sarebbe una presa per il culo. Il fatto che quanto stia scrivendo probabilmente verrà pubblicato fra non meno di due/tre settimane non fa che aumentare la sensazione di frattura tra il mio mondo solito e questa situazione. Nulla di grave, in ogni caso; per quanto ne so, tra cinque giorni riprenderò in mano queste parole per cambiarne completamente il senso.
O forse no. Chissà.
Al momento, vorrei solo potermi accendere una sigaretta, ma l’unico tocco di contemporaneità dell’ambiente è il divieto di fumare, e il sensore sopra di me è minaccioso come Montero quando decideva di farti saltare le ginocchia.
Sta di fatto che Milano in febbraio odora di grigio e metallo, il che, in un modo o nell’altro, deve far parte del fascino di questo gigantesco agglomerato.
Stasera arrivano gli Stereophonics, ed io, nonostante tutto, non potevo mancare.
Prima, in macchina, martellato da una pioggia fastidiosa come un dito in un occhio, mi sono buttato in una retrospettiva della band gallese, e anche ora, dopo una buona doccia, copro il rumore modello cascate del Niagara del condizionatore ascoltando a ciclo continuo Drowning. Che un po’ come al solito mi ha trovato tramite quella divinità asettica che a tratti pare vederci molto bene che prende il nome di shuffle, e che parte con quelle pennate di chitarra in levare, prima che la voce graffiante di Kelly Jones prenda la scena.
Non so perché
Non so cosa c’è che non va
Buffo, no?
Ma la musica è così, come una stanza d’albergo assume l’umore che credi debba avere in quel momento, e davvero non sai se la predisposizione per certi stati d’animo sia causa od effetto di uno stimolo esterno.
Sia come sia, Drowning chiude il sesto album dei gallesi, Pull the pin, e lo chiude alla grande, trascinandoti dentro i pensieri bastardi del cantante.
Se è vero che alcune canzoni a posteriori si sono rivelate autentiche richieste di aiuto in musica, in altri casi macchiare i fogli con gli scarabocchi dei propri demoni è, più che un SOS al mondo, una sorta di terapia d’urto. E’ come se un po’ di malessere restasse imprigionato tra le lettere scritte, tra le note suonate, permettendo di tirare avanti quel tanto che basta per superare un brutto periodo.
Il che, fidatevi, detto in un 5 febbraio che gela più dentro che fuori, in una camera che sa di foglie rinsecchite, è affermato con cognizione di causa.
Drowning è un po’ così.
Un po’ disperata, un po’ disillusa, almeno all’inizio, quando Jones riverbera accompagnato da quel levare insistente, ripetitivo, ossessivo.
Voglio sentirmi
Voglio sentirmi come mi sentivo prima
Nel tipico crescendo rock, ogni strumento entra al momento giusto lavorando per addizione, e se all’inizio al riff di chitarra si è aggiunta la voce di Kelly, ora è il momento che faccia il suo ingresso la batteria, che inizia a picchiare come ci si aspetta debba fare, né più né meno, e a volte è esattamente quello che ti serve: che le cose vadano come ti aspetti.
Jones dipinge un quadro fosco fatto di risvegli in apnea, soffocato da una insoddisfazione che ti prende a badilate in faccia senza soluzione di continuità, come onde sempre più potenti che una dopo l’altra ti sommergono, lasciando sempre meno spazio per riprendere fiato provando a resistere.
Il tempo cambia le cose
Come non avevo mai pensato
Quante scomparse si lascia dietro, il tempo che passa. Cambiano le priorità, mutano le idee. Ma arriva un momento in cui ti trovi fermo in un punto del cazzo, e sarà l’umore del momento, sarà che ogni tanto qualche conticino viene naturale farlo, di colpo non sei più molto sicuro delle decisioni prese.
Amici persi, posti cambiati, partner abbandonati.
Sei davvero sicuro di essere la persona che avresti voluto essere qualche anno fa?
Guardati.
Il tuo lavoro, la tua vita sociale, le tue solitudini. E poi il sesso, l’amore, gli amici.
Quanto di questo hai coscientemente deciso? Quanto è, semplicemente, successo?
Forse è così per tutti. Forse arriva un momento in cui ti rendi conto che non hai mai veramente scelto qualcosa, ma ti sei lasciato trascinare da un’onda anomala fatta di piccole decisioni che di colpo si sono rivelate irrevocabili, o quantomeno vincolanti.
Inarrestabile come un diluvio scatenato nella tinozza che è la tua vita, Drowning continua a crescere costantemente, e il muro sonoro, proprio come fosse acqua, riempie ogni anfratto della tua mente, scoordinando i pensieri, in balia di una rabbia magistralmente interpretata dalla band e dai graffi di Kelly.
E’ quasi come affogare, sul serio, e le sentenze del cantante si susseguono una dopo l’altra, tagliando ogni secondo di più il fiato.
Poco importa che tu ci sia già passato, che tu conosca bene quella sensazione di essere incompleto, disconnesso dal flusso costante dell’esistenza, gettato in pasto al mondo senza esserne davvero partecipante attivo, ma soltanto pedina guidata da forze che non puoi comprendere.
Bussa alla tua porta con un’insistenza che non riesci ad ignorare, quella depressione, con una potenza che non puoi controbattere, se non lasciando che ti prenda un’altra volta, che ti riempia completamente, spleen esistenziale da combattere buttandolo su carta, mettendolo in musica, lasciando che sia lei, come al solito, a combattere i tuoi demoni, come fosse il tuo personale sacco da boxe da colpire fino a che lo sfinimento non si porti via oltre all’energia anche la puzza d’ospedale, l’umidità delle vene, la voglia di pensare un attimo ancora a tutto quello che sei, hai, pensi, fai.
Che a furia di urlarla, quella rabbia, svuota i polmoni, mette in circolo endorfine ed adrenalina e dipinge le pareti di una stanza d’albergo discutibile di un colore nuovo.
Almeno fino alla prossima volta, sai che se annegherai sarà solo per rinascere di nuovo.

TESTO E TRADUZIONE

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