Uno dei mali endemici della società contemporanea sono senza alcun dubbio le radio version.
Un artista si impegna, crea un pezzo dal nulla, e ci sarà un motivo se lo ha fatto con due strofe, un bridge, un ritornello, un assolo, una scoreggia, no? Poi arriva la radio e per metterla in rotazione la devi ridurre, modificare, creando una specie di doppleganger striminzito e malaticcio.
Che poi ti capita di ascoltarlo, uno di questi pezzi, mentre sei sovrappensiero, magari lo canti, tanto lo conosci bene, e di colpo tutto cambia, anche se subito non te ne accorgi, come quando sul navigatore sbagli strada e per qualche secondo l’assistente virtuale non se ne rende conto.
Tipo un tardo pomeriggio dell’autunno 1994. Novembre, mi pare. Stai giocando a biliardo con gli amici, gli stivali blues da primo prezzo parevano non avere grossi problemi a mischiarsi con una camicia di flanella a quadretti molto grunge e un paio di jeans tanto anonimi da sembrare un pezzo di una di quelle cantanti italiane di oggi che io proprio non riesco a distinguere. Tanto per dire che ok gli anni novanta, ma in termini di moda si faceva comunque quel che si poteva.
Per radio passano i Bon Jovi. E’ uscito da qualche mese Crossroads, la raccolta delle loro canzoni più belle, con quel singolo strappamutande, Always. Ti sembra quasi di ricordare l’espressione dei tuoi amici, mentre provi ad inerpicarti lungo le note e la poesia di strada del primo ritornello, con il suo i’ll be there ‘til the stars don’t shine, ‘til the heaven burns and the words don’t rhyme, prima di renderti conto che nella versione radio è stato potato senza pietà. I tuoi amici ti guardano come se gli avessi macellato il gatto.
Si fan delle figure, con le radio version, dio santo.
Sta di fatto che quell’album rimane nel tuo mangianastri tanto a lungo che il ’94 lascia spazio al ’95, pian piano recuperi tutta la discografia, e di riffa o di raffa, son quasi venticinque anni che il rocker di Perth Amboy, New Jersey, con la sua band che si chiama come lui, ti accompagna.
Quel greatest hits partiva nello stesso modo in cui partiva l’album Slippery when wet del 1986. Un bilico di dinamite che viaggia a 130km/h con i freni rotti. Sai che è destinato ad esplodere, è solo questione di tempo.
Tappeto di tastiere in ingresso, giro di basso da diventare barzotti, martellata di rullante. 17 secondi.
Poi, lo scoppio, di quelli grossi, che ti fermi e dici wow. Il chitarrista Richie Sambora entra e riprende lo stesso giro di basso, lo rende unico con il talk-box, un apparecchio che permette di modulare il suono dello strumento muovendo la bocca. Livin’ on a prayer. Bum.
La storia di Tommy e Gina, così solita ed inconfondibile allo stesso tempo.
Solita perché assomiglia a migliaia di altre storie di fatica quotidiana, di lotta per una sopravvivenza dignitosa, facendosi forza con l’unica cosa che ancora rimane, quell’unione di intenti, quel supporto mischiato all’affetto che dicono di tanto in tanto si faccia chiamare amore.
Ma siamo nel 1986, i Bon Jovi sono una band hard-rock di ragazzotti belli come solo le copertine ti fanno sembrare, l’aria da duri, i capelli vaporosi e un retrogusto macho che nel periodo non guasta di certo.
Ed è proprio per questo motivo che la storia di Tommy e Gina diventa inconfondibile, perché sovverte il luogo comune dell’uomo forte a prescindere e della donna ansiosa e da proteggere.
Tommy è senza lavoro, ed è Gina a mandare avanti la baracca, lavorando tutto il giorno in una tavola calda, è lei che porta a casa i soldi necessari a sopravvivere, ribaltando la logica dell’uomo che si deve prendere cura della propria donna.
Ma più di tutto è sempre Gina che rassicura il proprio uomo, è lei che nel primo bridge dice
Dobbiamo tenere stretto quello che abbiamo
Non fa differenza se ce la faremo o no
Abbiamo l’uno l’altra e questo è molto
Per amore – Noi ci proveremo
Le Gina di tutto il mondo erano già Gina anche prima di questo pezzo, mica avevano bisogno di saperlo, ma che un rocker figo a mille con le chitarre spianate e il bicipite pronunciato lo dica a chiare lettere in un pezzo hard-rock, nel 1986, mostrando le dinamiche di coppia sotto una luce più realistica e meno patriarcale è un parziale cambio di paradigma.
Ma anche Gina ha paura, anche lei è spaventata da un futuro tutto da inventare, dove l’unica certezza oltre il loro amore sembra essere il dubbio di non farcela che morde lo stomaco a tarda notte.
E anche Tommy è appoggio costante per la sua donna, le sussurra che andrà tutto bene, e prima del secondo ritornello tocca a lui ripetere il loro personale mantra, incalzato dal tiro della band che resta costante come il loro amore.
Perché non è peccato sentirsi deboli, che siano lui o lei ad esserlo, quando l’altra persona è al tuo fianco, pronta a rassicurarti.
E forse è questo il vero coraggio, essere preoccupati, o spaventati, o rassegnati, ma pronti a tenere botta per l’altra persona in un mutuo soccorso che non contempla barriere o silenzi, e proprio questa fragilità manifesta diventa tenacia vera, speranza autentica.
Tommy e Gina sono così belli da non sembrare nemmeno reali, un uomo ed una donna che si amano e si vedono uguali, senza sovrastrutture mentali a stabilire chi deve guadagnare, chi deve soffrire, chi deve preoccuparsi.
Dobbiamo tenere botta, pronti o meno
Si vive per combattere quando è tutto quello che hai
Eppure, forse, reali lo sono.
Viene così facile crederci, mentre ascolti questo pezzo, saltando come un pazzo, sapendo perfettamente che ognuno, in fondo, cerca un Tommy o una Gina.
Livin’ on a prayer
