Certe canzoni sembrano sapere perfettamente quando è il loro momento. Restano nascoste a lungo, passano sottotraccia nella discografia di un gruppo, non sai bene nemmeno tu il perché, per poi esploderti in testa nell’esatto istante in cui ti sembra di averla aspettata per anni.
E dire che a volte sono pezzi belli, bellissimi, questi che un giorno di mare escono dal lettore mp3, si fanno ascoltare per l’ennesima volta e in un attimo si coprono di nuovo valore, come diamanti che dovevano solo essere lucidati un po’ per scoprirne l’essenza.
Loro sono gli Stereophonics, e questa è la storia di Dakota.
Perché Dakota è uno di quei pezzi lì, era addirittura la sigla iniziale di FIFA 2006, figuriamoci se non l’hai mai sentita.
Ma fino a quel giorno è davvero come se tu non l’avessi mai ascoltata, e anche se può sembrare strano, in fondo penso che di pezzi del genere ognuno ne abbia qualcuno.
E allora metti che sei lì, la sbronza della sera prima che ti picchia ancora in testa come un monito, il sole che ti cuoce la pelle mentre ti sembra di essere un hot-dog, la sabbia che ti si infila anche nel culo. Strana, tra l’altro, questa cosa.
La sabbia, dico.
E’ un po’ come i ricordi.
Quando vieni via dalla spiaggia fai in modo di eliminarla il più possibile, poi arrivi a casa, ti fai una doccia e scopri che ne avevi ancora un po’ da scrollarti via. Dopo qualche giorno riprendi quei jeans che al mare hai tenuto sul telo per tutto il tempo e nelle tasche, non si sa come, spunta di nuovo. E dopo quattro mesi riprendi lo zaino, e sul fondo c’è lei. Passano gli anni, e se per caso ti capita in mano il portafoglio che usavi allora, lì, sul fondo dove mettevi le monetine, stai sicuro che ne trovi ancora.
Dakota è così, è sabbia e ricordi.
E’ come fosse sbucata fuori dal nulla, in un pomeriggio di un presente non ancora passato, per dirti che presto, molto presto, tutto sarebbe finito, e a te sarebbe rimasta solo questa canzone, a parlare di quei ricordi, di quell’estate.
Se sei come me, sempre in bilico fra il passato e quello che lo diventerà in fretta, fai presto ad amarla, una canzone così, in un momento così.
Che poi a sentire l’intro è anche comprensibile come mai la scelsero come sigla di un videogioco.
Tastiere che si muovono come quei fasci di luce che le discoteche anni ’90 proiettavano nel cielo. Non so, forse lo fanno ancora, ma non ho più l’età per finire in uno di quei buchi infernali e uscirne vivo. Comunque, l’idea del movimento, di un sacco di cose ancora da fare, di ansia per qualcosa che vada oltre è tutta lì, in quel loop iniziale.
Solo che poi parte, e anche se il movimento rimane, e sembra di essere in uno di quei video dove dal cruscotto di una macchina vedi il mondo che si muove veloce, di notte, con le linee di luce che scorrono veloci come il tempo che passa, capisci che forse chi l’aveva piazzata là, tra i calci virtuali ad un pallone, non si era sforzato più di tanto. Per non dire che non capiva un cazzo, perché entra la batteria, entra il basso, e quel loop iniziale si piega alla volontà di un giro di tastiera che se ascolti bene sembra sì il tempo che passa, ma non sembra molto sicuro che il fatto in sé sia un bene.
La malinconia può anche essere così, no?
Soprattutto se la voce di Kelly Jones ti lascia subito con l’amaro in bocca.
Pensando al passato, penso a te, ti dice.
Un attimo e sei già su questa macchina del tempo, tra ricordi d’estate, risate, divertimento e qualche birra, dormendo sul sedile posteriore di una macchina.
Ma non è che un sogno, vero, Jones?
Ti svegli come tutte le mattine, un caffè, forse una sigaretta, e ricordi quel passato, pensando alle circostanze della vita, a quell’incontro di tanti anni fa, andato come va sempre tutto.
E ti chiedi come starà lei. Cosa faccia. Un sogno, Jones, è bastato un sogno.
E sei già a farti film in testa, su di lei, su di te, sulla possibilità di un altro incontro, dopo tanti anni, per trovarvi un po’ confusi, a parlare di quello che fate, a parlare di voi.
Non siete mai andati lontano, cantavi, non ne avevate bisogno, parlando forse del sesso, o forse del fatto che non serviva nulla di più che stare insieme, perché, ed ecco che entrano finalmente le chitarre, ti faceva sentire come il solo e l’unico.
Che alla fine è tutto quello che vvuoi, no?
Tanti discorsi, tante teorie. Piani di vita, idee comuni, stimoli. Si, ok, tutto figo. Che poi però ci pensi e se guardi indietro ciò che ti manca davvero è quello. Qualcuno che ti faccia sentire unico. Che ti racconti la favoletta del “non potevi che essere tu”. Che sarà anche una stronzata, e sappiamo che è così, ma dio cristo quanto fa stare bene.
E lo sai, Jones, che con lei era così. E’ stato per poco, è stato tanto tempo fa, ma i ricordi sono come la sabbia, e li trovi sempre quando meno te lo aspetti, a volte anche sotto il cuscino.
Mi piace immaginarmelo così, Jones, mentre prende un telefono in mano, e chiama quel numero che probabilmente non ha mai voluto cancellare, attraversando in un secondo spazio e tempo, per cercare ancora quella roba lì, mentre il loop torna a prendere le scene, e rallenta, e svanisce, e si ferma.
Forse davanti a lei.
Perciò guardami, adesso.
Come mi guardavi allora.
Perché è bello sentirsi unici, anche solo per finta, anche solo per un istante.

TESTO E TRADUZIONE

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