David Bowie.
Bello questo.
Un alieno con centomila volti, dandy, provocatore, edonista, piombato sul rock e più in generale sulla cultura popolare come un meteorite sulla terra.
Bowie è stato prima che un musicista un artista visionario e iconoclasta, capace di fondere musica e arte, in grado di rendersi futile e falso come una moneta da 3 euro e allo stesso tempo furia ribelle scatenata sullo show-biz, modificando in parte anche gli stilemi dello stesso mondo, senza la preoccupazione di dover necessariamente essere un modello da seguire.
Chi fosse davvero ha poca importanza, come sempre nel mondo del rock, considerando che andare a cena con una rockstar deve essere di una noia mortale.
Bowie vive nelle sue canzoni, come ogni musicista, al di là del concetto di bene o male, giusto o sbagliato, corretto o ipocrita.
E alcune delle sue canzoni sono macigni belli grossi, pietre miliari disseminate lungo i sentieri infiniti del rock.
L’uomo che vendette il mondo è una di queste, ed è anche quella che forse più di tutte descrive alla perfezione la mente composita di questo artista che ha cavalcato 50 anni di epoche rock senza mai venirne del tutto disarcionato.
Cullati da un giro di chitarra che è già storia, siamo accompagnati da Bowie nel racconto di un incontro tra lui e un’altra persona, avvenuto tempo prima, mentre salgono una scala.
David sembra non riconosce la persona, che pure si presenta a lui come un vecchio amico, parlando del più e del meno.
In realtà, non esiste alcun incontro fisico, è solo Bowie stesso che, in un flusso di coscienza, si ritrova a fare i conti con una sua versione più giovane.
La scala è forse una metafora per i ricordi e le sensazioni accumulate nella mente, che una volta richiamati mettono in contatto il protagonista con il ragazzo che era tanti anni prima.
Bowie si stupisce del fatto che quell’adolescente lo veda ancora come un amico, considerando quanto sia cambiato nel frattempo, e si meraviglia che la stessa indole giovanile sia ancora dentro di lui, credendola da tempo ormai morta e sepolta.
Ti sbagli, non sono io che sono morto, gli risponde il ragazzo. Io non ho mai perso il controllo, sei tu che hai venduto il mondo, diventando una persona completamente diversa, forse nemmeno più in grado di riconoscere da dove sei venuto.
La differenza fra il sé stesso passato e il presente è resa magistralmente dagli effetti vocali, che sembrano, nella risposta del “Bowie-ragazzo”, far venire la voce del Duca Bianco da un’altra dimensione.
Anche la musica, durante la risposta-ritornello, cambia, diventando quasi guascona, in contrapposizione alla tetra ripetitività del canovaccio affidato al “Bowie-adulto”.
Ecco infatti che la musica torna al giro di chitarra iniziale, simbolo della routine quotidiana e dello scorrere del tempo, come se il protagonista cercasse di tornare alla propria normalità dopo il confronto con la sua coscienza.
Bowie sembra essere mosso dall’ansia di cercare una chiave, un modo per non cancellare completamente le proprie radici, confrontandosi con i milioni di idee, convinzioni e personalità diverse che hanno contribuito a farlo diventare l’essere umano che è ora.
Ma anche quelle migliaia di personalità sono morte, si chiede, se ogni nuova esperienza lo cambia e lo rende diverso rispetto a quello che era prima?
Se c’è qualcuno che lo sa, quello non sono io, sembra dirsi, con un rigurgito di cinismo, anche se il pensiero di aver venduto sé stessi è sempre presente.
Ed ecco la definitiva presa di coscienza.
Quello che siamo adesso non è detto che lo saremo anche in futuro, e quello che siamo stati, o che avremmo voluto diventare quando eravamo solo dei ragazzi non corrisponde necessariamente a quello che siamo ora. Il mondo, le esperienze, l’imprinting sociale ci hanno irrimediabilmente cambiati, e nonostante non sia possibile stabilire cosa sarebbe stato se le cose fossero andate diversamente, è comunque inevitabile prendere atto del tradimento ai danni della nostra essenza primaria.
In fondo, non si tratta che di questo.
A quanti compromessi si deve cedere, perdendo di vista il proprio IO ancestrale, prima di rendersi conto che si è messo in vendita il proprio mondo, barattando i sogni che ci avrebbero potuto guidare con un presente a portata di mano?
Quanto si è disposti ad accettare questo cambiamento per certi versi inevitabile?
Ma soprattutto, quanto può fare male scoprirlo?
Le voci sovrapposte e dolenti nel coro finale non rispondono a nessuna di queste domande, sono solo ineluttabile e forse dolorosa comprensione.
Nel 1993 i Nirvana (quante volte tornano, eh?) buttano lì una grandiosa cover unplugged di questo pezzo.
Cobain con la sua voce si infila come tanti spilli sotto le unghie, a farti soffrire un po’, mentre i suoi occhi nel video ufficiale sembrano guardare oltre un confine che può vedere solo lui.
Forse era solo l’apatia indotta dalla bastarda.
Forse stava parlando con quel ragazzino che era stato, prima che tutto accadesse.
E quando Kurt sbrana i cori finali e li trasforma in un assolo di chitarra sporco, lacerato, penso sempre che no, non era solo l’apatia dell’eroina.
Deve aver fatto male scoprirlo, Kurt.
Fuck.