Come regalo per l’esame di terza media i miei mi comprarono un impianto stereo.
Non ritengo esagerato affermare che, di quei tre anni, quel regalo sia l’unica cosa che ricordo con gioia.
C’è però da dire che ancora oggi ripenso a quello stereo con estremo piacere, ed il fatto mostra sotto un’altra luce la parentesi delle medie, come se ci fosse una morale, tipo che anche dai periodi del cazzo si possa tirar fuori qualcosa di buono.
O forse è solo una scusa che uno si racconta per far finta che esista una compensazione.
Più probabile, questa, in effetti. I periodi del cazzo son periodi del cazzo e basta.
Sta di fatto che io adoravo il mio impianto stereo. Nero, compatto, essenziale e potente. Che in fondo a me le cose son sempre piaciute così, senza troppi fronzoli. Aveva due casse ai lati, e potevi ascoltare non solo le musicassette, come ero abituato a fare, ma anche i vinili e i CD.
Oh, di questi ultimi a tredici anni non è che potessi permettermi chissà quanti acquisti; costavano attorno alle ventimila lire, mi pare, alcuni anche trenta, se erano appena usciti.
Tanto che nel 1992, due anni dopo, credo che con la mia paghetta ne fossi riuscito a comprare solo tre.
Blue’s di Zucchero, in offerta non ricordo dove. Quel capolavoro di Achtung baby degli U2.
E Human touch di Bruce Springsteen, ben prima che Springsteen per me diventasse Bruce. Pensa a volte i casi della vita.
Lo comprai come si comprano a volte certe cose, d’impulso, che volevo allargare la mia cultura sonora, e partire da Springsteen mi sembrava un degno omaggio alla storia del rock.
Giravo anche un sacco in bici, a quell’età, soprattutto nella finestra temporale che andava da maggio a settembre, che prima e dopo al mio paesello faceva un potenziale freddo caino e non c’erano ancora tutti quei tessuti tecnici per ripararti dall’aria. Saltavo in sella e pedalavo così, per farlo, lungo strade secondarie con l’asfalto bucato, senza che sapessi preventivamente che giro avrei fatto, anche se poi mi ritrovavo sempre a fare i soliti tre-quattro percorsi, accompagnato solo dall’afa, dai grilli e dalla musica che mi girava in testa.
Niente cellulari per comunicare a casa che stavi bene, non eri finito in un fosso, non ti aveva scornato un cinghiale, non eri stato rapito dagli UFO. Nessuna assistenza se andavi troppo lontano e tornare a casa diventava un dramma, che la vita insegna tanto, ma certe presenze di spirito le maturi solo alle sette di sera, quando non c’è più tutta quella luce, le gambe pesano come mattoni, davanti a te ci sono quattro chilometri di salita a tornanti, e l’unica soluzione è continuare a mulinare i quadricipiti femorali, poco importa a quale ritmo, l’importante è non smettere di pedalare, senza alzare troppo lo sguardo, che se cerchi per forza un’idea di casa, una sorta di orizzonte da raggiungere, ti deprimi e ci rimani in mezzo.
In un modo o nell’altro, comunque, son sempre rientrato alla base, ma sa il cielo quante volte avere in bocca una canzone mi abbia salvato dalla rassegnazione, e in quell’estate del 1992 quelle che accompagnavano i miei ansimi in salita venivano dal CD di Bruce, With every wish, in particolare.
Human touch – ma anche il suo fratellino Lucky town – è un album album parecchio strano.
Bruce cerca nuovi stimoli, e per la seconda volta consecutiva non si circonda della E-Street Band, di cui si trovano tracce solo nel Professor Roy Bittan alle tastiere.
Human Touch e Lucky Town uscirono in un momento in cui, per trovare quello di cui avevo realmente bisogno, dovevo lasciare che tutto scorresse: cambiare, provare nuove soluzioni, commettere errori… vivere
Così si esprime l’artista, e alla fine non riesci proprio a biasimarlo, che a volte la soluzione è proprio quella e basta. Commettere errori, vivere.
Sia come sia, personalmente ho sempre apprezzato quel disco. Forse proprio perché è stato il mio primo approccio con il Boss, e ancora non conoscevo la mole impressionante di musica di livello superiore che aveva creato prima e che avrebbe creato dopo, ma anche perché nei suoi pezzi, in With every wish soprattutto, c’era qualcosa che mi faceva sentire a casa, e non chiedetemi cosa fosse di preciso, perché davvero non ne ho idea.
So che il mio romanzo preferito era, allora come oggi, IT di Stephen King. So che a volte pedalavo di fianco ad un minuscolo torrente che immaginavo simile ai Barren. So che With every wish stava da dio in una calda giornata estiva, passando da quella strada, pensando al Club dei perdenti.
Oggi, con qualche anno in più sul groppone e una certa dose di indomita acquiescenza, posso azzardare che forse è perché King e Springsteen non sono così distanti, nel raccontare vite emarginate di protagonisti non necessariamente vincenti, per non dire smaccatamente perdenti. Che i personaggi del Re di Bangor son quasi sempre in lotta con i propri demoni, come quelli del Capo di Freehold. Che sia la poesia di Bruce che la prosa di King sono di formazione, e attraverso le loro pagine e note è possibile tracciare un percorso di sogni da realizzare, fallimenti improvvisi, sopravvivenza, crescita, speranze, a volte.
Allora, senza troppe analisi che paion seghe, probabilmente univo quello che più mi piaceva, senza cercare a tutti i costi un perché, e cantavo la ballata amara dei desideri, conquistato più dalla musica e dalla cadenza dell’inglese che non dalle parole.
C’era un vecchio pesce gatto nel lago, lo chiamavamo Big Jim
Quando ero un bambino il mio unico desiderio era di metterlo alla mia lenza
Bruce parte da lontano, dipingendo i ricordi di immatura bramosia del protagonista ancora bambino, dondolato dal semplice arpeggio di una chitarra. Sembra di vederlo, questo Bobby, mentre inizia a parlare, le rughe d’espressione, le mani nelle tasche di un paio di jeans da lavoro, gli occhi che guardano davanti a sé, mai troppo verso l’orizzonte, che altrimenti ti deprimi.
Così saltai la messa una domenica, remai fino al largo e gettai la lenza in acqua
Jim trascinò quell’amo e me proprio oltre la sponda
E mi portò giù, oltre vecchi pneumatici e lattine di birra arrugginite
L’angelo del lago sussurrò al mio orecchio
“Prima che tu scelga il tuo desiderio, figliolo, dovresti pensarci bene
Per ogni desiderio arriva una maledizione”
Si desidera sempre con più veemenza quello che non si riesce ad avere, quello che ti sembra di non poter conquistare. A volte desideri quella cosa, quella persona, quella situazione così tanto da costringerti a pensare che la sua mancanza sia il centro dell’esistenza, e che senza di essa non vali un soldo bucato.
Che son sicuramente i desideri a muovere il mondo, ma per ognuno di essi c’è un conto da pagare, e di tanto in tanto capita sia salato da far schifo, quando quello che conquisti ha perso la forma originaria di stimolo per diventare qualcosa di diverso, come per Bobby la bellissima Doreen. Qualcosa che non ha più a che fare con la propulsione positiva di un motore, ma che trascina a fondo come la più bieca delle ossessioni. Bruce parla di questo, restituendo la sensazione che desiderare troppo a lungo una situazione non faccia altro che portarti lontano da quello che sei in realtà, affondando nel lago delle tue bramosie, rendendoti una persona peggiore, vittima delle tue insicurezze cresciute fuori scala nelle notti spese a desiderare.
Gli strumenti, intanto, si son sommati lentamente l’uno all’altro, e alla chitarra si è aggiunta di soppiatto una spazzolata di batteria, là sotto un giro di basso crea cerchi concentrici, le tastiere modellano un tappeto che pare canicola, mentre a tratti una tromba con la sordina fa il verso alle strolaghe, e all’improvviso li senti tutti insieme, arrivati senza che te ne accorgessi, un po’ come fa l’età.
E poi arriva la strofa finale.
Ultimamente me ne sto fermo e sorrido, pensando a tutti i fiumi che ho attraversato
Ma su ogni riva opposta c’è sempre un’altra foresta, dove un uomo può perdersi
E le strofe finali di Bruce non sono mai messe lì per caso, come diceva quello lì con la barba. Regalano sempre un senso compiuto ad ogni nota suonata, ad ogni sillaba pronunciata.
Beh, qui in mezzo agli alberi il pettirosso dell’amore svolazza
Guidandoci attraverso la parte opposta di un altro fiume
E c’è qualcuno che aspetta con quello sguardo negli occhi
Sembra di tornare indietro di un album e incontrare una vecchia conoscenza; ha qualche anno in più nei polmoni, ma la stessa camicia con le maniche tirate su fino ai gomiti, e forse meno sicurezza di essere davvero più tosto degli altri nel cercare l’amore.
E sebbene il mio cuore sia sempre più stanco e ben più che un po’ timido
Stanotte berrò dalle sue acque per placare la mia sete
Ma se gli anni son passati, quella sete brucia in gola ieri come oggi, racconta Bruce, che l’indole mica cambia con la carta d’identità, si fa solo più guardinga, probabilmente. Ha abbandonato parte dell’irruenza che la guidava, forse, e con essa sembra essersi allentata anche quella morsa attorno al collo, quella che nasconde aghi nel cuscino e serpenti nelle coperte, che affonda gli artigli nell’intestino e sussurra di possesso, insicurezze, miseria.
Che oggi desideri ancora, lo fai profondamente come quando desideravi catturare il tuo Big Jim. Vita, incontri, persone, situazioni, luoghi. Desideri ancora, desideri tutto, diosanto. Solo non permetti che quella stretta trasformi i desideri in maledizioni.
E lascerò agli angeli le preoccupazioni
Con ogni desiderio…
E quella frase sospesa, quasi parlata – prima che la tromba sbuffi in faccia a tutte le volte che hai voluto troppo qualcosa, e le tastiere portino via i rimpianti – quella frase lì dice tutto, che qui siam già troppo occupati a commettere errori e vivere, per preoccuparci pure in modo ossessivo di raggiungere quello che vogliamo.
Arriverà, forse. O forse no. Ti importa il giusto, in realtà.
Ecco perché ti pare di esserci così vicino.

TESTO E TRADUZIONE