La musica si muove spesso per strade misteriose.
A volte incontri persone che condividono con te un breve percorso, anche solo pochi giorni, e quello che ti lasciano è una canzone, un album, un artista, che a distanza di quasi vent’anni ha il potere di riportartele alla mente, con un sorriso e la consapevolezza che ne sia valsa la pena.
Conobbi PJ Harvey nel 2000, durante un weekend a Belluno.
L’album era To Bring You My Love.
Fu una lei, a farmi annegare tra le ombre conturbanti di questo disco del 1995, dove PJ, bastarda e maledetta, scolpisce sulla roccia del rock 10 tracce indimenticabili.
To Bring You My Love è un diamante sparato al centro del cuore, che si sbriciola al contatto con il tuo petto, e che lentamente contamina il fluire del sangue con frammenti di incalcolabile valore, fino a sostituire i globuli rossi, amoreggiando ambiguo con le tue arterie, permeando con un sinuoso ed inesorabile diffondersi ogni parte del tuo essere. A te sembra sia il formicolio di quando resti fermo in una posizione, ma è PJ, è Polly Jean, che ti è entrata dentro, e ogni tanto reclama il suo tributo di inquietudine, sensualità e peccato.
Si apre con il pezzo omonimo, questo album strepitoso, con un basso elettrico come pochi altri, che arriva da lontano a modulare un riff di sei note che ti sembra di entrare in un sogno maldestro dove ti trovi davanti alla porta d’ingresso di un appartamento. Stai per bussare, appena appoggi la mano, e ti rendi conto che la porta è aperta, e nella penombra avanzi, un passo incerto dopo l’altro, e sul tavolo del salotto c’è una boccia di vodka mezza vuota, e continui a sentire quelle sei note, se giri la testa vedi la luce rossa che arriva dalla porta socchiusa della stanza in fondo al corridoio. Il richiamo è irresistibile, mano a mano che ti avvicini il suono ipnotico si fa più forte, e quando apri la porta accostata, nel silenzio rotto solo da quelle note, la vedi.
PJ è lì, appoggiata alla testiera del letto, un vestito rosso che la fascia, i lunghi capelli neri sdraiati sul cuscino che si muovono come fossero in acqua di lago e gli occhi su di te, ma l’unica cosa che guardi sono le sue labbra rosso fuoco che si muovono.
Sono nata nel deserto, sono stata ferma per anni, Gesù vieni più vicino, penso che il mio tempo stia arrivando.
Inizia così la confessione senza vergogna di un’esistenza vissuta alla ricerca dell’amore totalizzante e maledetto. Un amore come una droga, da portare a compimento ad ogni costo, rinunciando all’espiazione, disprezzando la pace, mortificando la morale.
La voce di PJ erutta dall’abisso profondo, come non avesse più nulla da perdere e non avesse alcun timore di mostrarsi per quello che è, nessuna paura di ammettere quello che ha fatto, che se lo ha fatto è stato per portarti il suo amore.
Come essere in punto di morte e non rinnegare niente, dalla vacuità di una vita in parte sperperata nell’attesa, alla decisione di doversi qualcosa di più, che l’ansia nella ricerca di quello che non hai è semplicemente troppo potente per potervi resistere.
Un viaggio attraverso terre aride di vita e nubifragi di emozioni, viaggiando tra l’alpha e l’omega della vita stessa, un’ammissione amara della completa dedizione all’amore, senza alcun rimpianto, ma solo la dura presa di coscienza del prezzo pagato, trincea assassina e sanguinosa, discesa nelle viscere del consapevole addio alla serenità.
Cupo, angoscioso blues, che attimo dopo attimo svela un’anima martoriata.
Prende ogni secondo più coraggio, PJ, mentre descrive con crescente violenza la perdita dell’innocenza, vuotando il sacco nel disegnare i limiti di volta in volta superati per continuare a credere in quell’amore tossico.
E anche adesso, sul letto di morte, non è ancora tempo di rimpianti e delusione, ma di rabbiosa speranza nel suo arrivo, che se hai fottuto il Demonio, bestemmiato Dio, rinnegato anche il tuo stesso spirito in nome di quell’amore, deve esserci una ricompensa, e chiamalo karma, chiamalo Cristo, chiamalo merdoso merito, se esiste una giustizia, lui sta arrivando.
E’ così scarno, questo brano, che ogni suono è importante, e ogni inflessione nella mastodontica interpretazione di Polly Jean assume un potere immaginifico. Ogni parola sembra più cruda della precedente, ed è quasi irrilevante il susseguirsi delle stesse, come si capisse a prescindere dalla conoscenza dell’inglese il mood di idrofoba rivendicazione del diritto alla ricompensa che lei ritiene di meritare.
Ma non va sempre come dovrebbe andare, e forse portargli tutto il tuo amore non basta.
Che la vita è bastarda, beffarda e un po’ stronza, e forse i meriti che ti sembra di aver maturato li vedi solo tu, e la dannazione nella quale ti sei costretta a camminare per donare la tua essenza a volte non è sufficiente.
Hai dimenticato il paradiso.
Scopato Satana.
Maledetto Dio.
Ma il tuo amore non è da dare a nessuno, non più, almeno.
Diventa furiosa, Polly Jean, come lo capisse, alla fine.
Sembra urlartelo in faccia, che non è giusto, che questo cazzo di sistema ha qualcosa di sbagliato.
E non puoi che tornare sui tuoi passi, a ritroso, continuando a guardarla, comunque fiera delle sue scelte, che niente di più poteva essere fatto, e se non è bastato, vaffanculo.
E sull’organo che si dissolve, svanisce anche il tuo sogno, e quella boccia di vodka mentre torni indietro a guardarla a modo potrebbe essere acquasanta, e davvero di più, forse, non si poteva fare.
To bring you my love

Amo PJ.
Album inteso.
Tutta PJ mi piace.
Bel post.
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Grazie Enri.
E hai ragione, PJ è pazzesca.
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