Fino almeno alla metà degli anni ’90, se il casino adolescenziale che portavi in giro ti sembrava potesse venir placato solo dalla musica, nella tua stanza non poteva mancare uno spazio dedicato alle musicassette, qualcuna originale, la maggior parte duplicata, in un mutuo scambio con gli amici che con l’età aveva soppiantato le figurine.
Passando di mano in mano, cassette inizialmente originali venivano registrate su splendidi nastri color cacca, girando da un compagno di classe ad un altro, abbassando drasticamente volta dopo volta la qualità, ma aumentando le possibilità di raggiungere la comprensione dei tuoi stati d’animo che solo nella musica potevano essere trovati, tanto da lasciare in pace per un attimo il tuo stomaco, almeno fino alla volta successiva.
Se eri fortunato, avevi qualche parente più grande di te che ti dava accesso ai tesori della sua camera, e potevi tornare a casa dopo aver duplicato qualche vinile, o, più tardi, qualche CD. E poi via, cassetta nel mangianastri e tasto play; proprio un bel tasto meccanico da spingere, intendo.
Con il tempo, dimenticavi anche quel fastidioso fruscio di fondo.
Però le cassette erano bastarde, mica potevi saltare da un pezzo all’altro, e se questo negli anni ti ha permesso di maturare la pazienza necessaria ad andare oltre il pezzo singolo, sul momento la fame era troppa, se scoprivi un pezzo che ti bruciava dentro. Non restava che mettersi di buzzo buono per interi pomeriggi, a creare compilation personalizzate, con tutte le canzoni che in quel periodo ti facevano sballare.
Il fatto che quel periodo talvolta durasse pochi giorni in fondo altro non era che una delle prime dimostrazioni di quanto la vita possa essere stronza, che spesso quello che hai desiderato per mesi, quando finalmente lo ottieni, non ti basta più.
Metafora dell’esistenza in quattro quarti.
Comunque, talvolta capitava che quelle canzoni superassero la prova che separa questa specie di innamoramento dall’amore vero e proprio, infestando come gramigna ogni nuova compilation che creavi.
What’s up, per me, fu una di queste.
Le 4 non Blondes erano inizialmente 4 ragazze. Avevano scelto il nome della band nel modo in cui si sceglie di solito il nome della band. Per caso, mentre si parla del futuro, del mondo, della vita e di quanto siete diversi dagli altri.
Che le blondes, nel gergo americano, non sono soltanto le ragazze bionde, ma anche le ragazze un po’ schizzinose, con la puzza sotto il naso. E quel “non” stava proprio a significare questa voglia di essere altro. Erano le “4 alla buona“, diremmo qui da noi. Qualcosa del genere, almeno. E poi non erano neanche bionde, in effetti.
All’uscita del primo (ed unico) album, non erano già più le 4 ragazze originali. Dawn Richardson aveva sostituito alla batteria Wanda Day, mentre Roger Rocha era subentrato come chitarrista a Shaunna Hall. Restavano Christa Hillhouse al basso e Linda Perry alla voce. E un nome così figo non poteva certo cambiare solo perché a disegnare assoli era arrivato un uomo.
What’s up fu una di quelle bombe che deflagrarono a seguito della rivoluzione grunge, quando gli anfibi la facevano da padroni, i video musicali erano un concentrato di ingenuità e grinta, e ancora si pensava che il rock non sarebbe mai morto. Fu parte di quell’onda che addolcì il suono di Seattle, rendendolo più accessibile e pop, senza per questo rinnegare completamente il movimento grunge.
A pensarci adesso, forse era già moda, ma mi piace credere che lo fosse senza sapere di esserlo. Ad ogni modo, per essere sostanzialmente l’unico vero successo della band di San Francisco, è da sottolineare che di rumore ne fece parecchio.
Nella mia vita, quel petardo di canzone esplose attorno ai 16 anni come una rivelazione di stati d’animo maldestri, e che ci crediate o meno, ho un ricordo vivido di una delle prime volte mi capitò di sentirla.
Era mentre in tre o quattro tra amici e amiche cercavamo di dare assistenza ad una nostra compagna di classe che aveva un po’ esagerato con l’alcol, dopo una cena di classe, nel tumulto di una discoteca. Perché, e questa è l’altra grande figata, all’epoca un pezzo del genere lo potevi sentire in disco, dico proprio la versione originale, con la chitarra acustica in intro e la voce di Linda Perry calda e grintosa.
Venticinque anni e la mia vita è ferma
Sto provando a costruire un grande monte di speranze
Il fatto che allora non capissi esattamente quello che diceva, con il tuo inglese pessimo come la vodka alla pesca, da bere con l’aria del duro che però ha ancora bisogno del gusto dolce per ubriacarsi, era tutto sommato relativo.
Non lo capivi, ma non ti interessava nemmeno, perché se c’è una cosa che sapevi era che what’s going on? significava qualcosa tipo “che cazzo sta succedendo?” e la sensazione era un po’ quella lì, quella di urlare al soffitto di un locale fumoso e in penombra l’unica domanda che sembrava potesse avere un senso in quel periodo.
Bastava quello.
Urlarlo sempre più forte, saltando insieme a qualche amico, un braccio attorno al collo in una catena umana mezza sbronza e l’altro per aria, a scandire le parole.
Confuso, euforico, incazzoso il giusto e inconsapevole del bello e del brutto che sarebbero arrivati tutti insieme.
Poi, il tempo è passato.
La tua vita è andata avanti, hai imparato lezioni importanti, una su tutte che la birra è una benedizione, molto meglio della vodka alla pesca, ma che tende a finire inspiegabilmente nel girovita.
In discoteca non ci vai più, ma se ti capita di imbucarti a qualche festa resti in disparte, molto più composto di un tempo, mentre biasimi quei ragazzini che si agitano in pista.
Ma forse è solo perché il DJ non mette su quel pezzo lì, che se no a urlare “che cazzo sta succedendo?” tutto sommato ti troveresti a tuo agio anche oggi.