Anni fa c’era una corriera privata che faceva servizio di linea tra il mio paese e Genova. Quattro ore di viaggio, dall’Appennino Emiliano al capoluogo ligure, attraverso quella striscia di terra che chiamano Lunigiana. Ricordo che lungo il tragitto si incontrava quella che tutti dicevano essere una casa infestata dai fantasmi, e che ogni volta che passavo di lì scrutavo fuori dal finestrino a cercare un segno degli spettri.
Mai visti.
Però ci guardo ancora, se mi capita di passarci.
Poi c’era anche un tornante cosi tignoso che la corriera doveva far manovra per riuscire a girare. Con gli anni l’hanno allargato e ha perso un po’ della sua poesia, mentre vicino alla casa dei fantasmi ora se non sbaglio ci dovrebbe essere un acquedotto. Roba che se le storie che raccontavano fossero vere, apri il rubinetto per farti un bidet ed esce un ectoplasma a salutare il tuo glande.
In ogni caso, in quella schifo di età che va dai 12 ai 14 anni circa, quando prendevo la corriera per andare a Genova, l’unica cosa che mi importava seriamente (a parte gli spettri) era avere le pile del walkman cariche e il Greatest Hits I dei Queen nelle orecchie.
I Queen sono una di quelle poche band delle quali sai i nomi di tutti i componenti, senza nemmeno bisogno di fare un salto su Wikipedia.
Per dire, eh.
Brian May alla chitarra (e che chitarra) John Deacon al basso, Roger Taylor alla batteria.
Poi c’era anche quell’altro tipo, quello che di cognome reale faceva Bulsara, quello geniale, istrione, esuberante, carismatico.
Com’è che si faceva chiamare? Ah, già.
Freddie Mercury.
Quello che aveva la voce che deve avere un supposto Dio alla domenica mattina mentre si fa la barba. Ma poi neanche, che l’ipotetico capo, là, darebbe il suo regno per una roba del genere.
Bohemian Rhapsody apriva la cassettina, prima traccia del lato A, e sa la madonna quante volte alla fine della canzone azionavo il tasto rewind per tornare all’inizio.
E’ che un pezzo così è semplicemente troppo, e un ascolto solo non basta mai a riordinare le sensazioni e la forza che trasmette.
La solita sfacciata potenza animalesca del rock, pura essenza di istinto primordiale.
Comunque, l’altro giorno ero in macchina, quando è partita di nuovo, a tradimento, portandomi in un mondo parallelo per quasi sei minuti, e allora ho di nuovo iniziato a pensare.
“Questa è la realtà? Oppure è solo fantasia?
Travolto da una frana, non c’è possibilità di fuga dalla realtà”
Parte così, Bohemian Rhapsody, musicalmente più vicina ad un’opera divisa in atti, che non ad un pezzo singolo, con almeno tre registri diversi a susseguirsi, in una grottesca rappresentazione della morte, dei suoi effetti e del giudizio che la stessa inevitabilmente genera.
E proprio come in un’opera teatrale, nella prima parte le azioni compiute riverberano fuori e dentro di noi, dando sfogo alla storia. E allora, abbassate le luci, si va in scena.
L’inizio con il coro a cappella, e poi un pianoforte che fa innamorare così in fretta da sembrare un filtro d’amore, intriso della malinconia che solo questo fantastico strumento sa donare.
“Mamma, ho appena ucciso un uomo, ho puntato la pistola alla sua testa, premuto il grilletto e adesso è morto”.
La pesantezza dell’atto compiuto fa a pugni con la descrizione dello stesso, come se l’omicidio non fosse altro che una serie di azioni a sé stanti, che hanno incidentalmente come risultato finale la morte.
Gela il sangue, a pensarci, a maggior ragione se l’omicidio non è nient’altro che quello di sé stessi, un atto improvviso, non calcolato fino in fondo, ma somma dei singoli gesti portati a termine senza che nessuno, nemmeno tu, abbia trovato un motivo ragionevole per non farlo. E se all’ultimo momento il soffio vitale è così forte da farti dire che non vuoi morire, forse non basta lo stesso, perché a volte non vorresti nemmeno essere nato.
La chitarra di Brian May libera il palco, pulita, eterea, magica, come tanti manici di scopa arriva a portare via la scenografia del primo atto, colorando di rosso le quinte, mentre nella penombra figure minacciose si agitano, pronte a comporre la sublime follia del secondo movimento.
Non c’è redenzione, nel suicidio, e la discesa negli inferi della propria colpa è inevitabile.
Come di fronte ad un tribunale demoniaco, la lotta tra il bene e il male per la salvezza dell’anima si scatena, grottesca, barocca, bizzarra, tra chi ti vuole salvare e chi ha già deciso che non esiste colpa che possa essere perdonata, nel capolavoro di post-produzione che vide centinaia di tracce vocali sovrapposte, un delirio di ritmi e melodie diverse e complementari. Non si era mai sentita nel rock, una roba del genere.
E sull’acuto finale, dopo un crescendo di tensione emotiva che sembra essere eterno, il terzo atto arriva così improvviso da spezzare tutte le resistenze che tengono compartimentati i due emisferi del cervello, che se fossimo sul serio in uno spettacolo teatrale un vecchio in prima fila avrebbe una poderosa erezione, mentre due ragazzini seduti negli ultimi posti smetterebbero di limonare all’istante.
E’ un terremoto.
La rullata di Roger Taylor apre ad uno dei riff più portentosi della storia del rock, e il vigore degli amplificatori manda in culo Satana, Dio, il giudizio universale, la salvezza delle anime e tutti i vantaggi di una vita di sensazioni non manifestate per eccesso di sobrietà.
“Così pensate di potermi lapidare e sputarmi addosso?
Così pensate di potermi amare e lasciarmi morire?
Devo solo trovare un’uscita, devo solo andarmene fuori di qui al più presto”
L’energia trattenuta per tutto il brano si libera di colpo, a svelare il trucco, a smascherare giudizi affrettati e sentenze sommarie.
Che in fondo forse non è successo niente, non ci sono morti, suicidi, omicidi, addii. E’ solo una magnifica finzione, e se c’è stata la morte è come nei tarocchi, da interpretare come il cambiamento del proprio io passato, e in ogni caso, realtà o finzione, morte o presa di coscienza, non avreste comunque avuto il diritto di giudicarmi, sembra dire Freddie, nell’urlo liberatorio che rifugge il biasimo e mostra il dito medio alla colpa e al decoroso contegno delle proprie emozioni, proprio mentre il sipario cala sulla realtà, sulla fantasia, su quello che siamo e quello che vorremmo essere.
Intanto, fuori, il vento continua a fischiare, come a ricordare che tutto scorre, tutto passa, tutto, infine, va avanti.

TESTO E TRADUZIONE

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