Erano mesi che volevo scrivere qualcosa sugli Wilco, ma lo spunto buono sembrava non arrivare mai.
Finchè l’altro giorno mi sono trovato lungo una strada che non percorro molto spesso. Uno di quei ritorni a casa di piena estate, con il finestrino abbassato a far entrare ancor di più il caldo, la corsia completamente deserta, il volume dello stereo a palla per cercare di coprire il suono dell’aria e la sensazione di quelle strade là, che sembrano così dritte, così pari, oltre l’oceano.
Che l’Illinois io non l’ho mai visto, ma per quanto ne so potrebbe anche essere una roba del genere, no?
E’ stata la sensazione di un momento, e sarebbe stato perfetto anche così, che ogni tanto fa bene godersi le cose, fossero anche la percezione di pochi istanti più vividi mentre allarghi il braccio fuori dal finestrino.
Ma subito dopo sono partiti gli Wilco.
At least that’s what you said.
Che in realtà era già partita da mo’, solo che il vento, il finestrino, la strada, stocazzo, all’inizio se non stai attento non te ne rendi conto, anche se hai il volume a canna.
Perché il pezzo che apre l’album A ghost is born ci mette un po’ a farsi sentire, con quell’intro di chitarra che sembra di essere in sala prove in un pomeriggio come tanti altri, aspettando che il bassista la smetta di flirtare con quella tipa là e il chitarrista spenga la sigaretta o finisca la birra, più facile tutte e due le cose insieme. Intanto, nell’attesa, il cantante strimpella sulla chitarra acustica, mentre il batterista si siede sul suo trono, scarta un chewing-gum, prende le bacchette e prova il charleston.
Sembra una cosa così, ma è l’inizio di una struggente malinconia che va goduta, assaporata, a maggior ragione se il sole del pomeriggio sbrana la riva di un fiume, e la solitudine dell’estate, ineluttabile, ovattata, antitetica rispetto all’isolamento romantico dell’inverno, ti prende all’improvviso.
Essere soli, d’estate, puzza di occasioni perdute, ricordi del tutto arbitrari e risate dimenticate. Sarà il contrasto tra il caldo sulla pelle e i geloni nello stomaco, sarà che il frinire dei grilli dopo un po’ da’ alla testa, se non lo copri con qualche parola.
Ma forse è solo Jeff Tweedy che inizia a cantare, la voce sommessa portata a spasso dai tasti di un pianoforte leggeri come fossero pantofole nel buio della stanza da letto, quando non riesci a prendere sonno e ti alzi per un bicchiere d’acqua.
Quando mi sdraiai sul letto di fianco a te
Iniziasti a piangere
Penso che a volte il momento dell’abbandono, della chiusura di una relazione, intendo proprio l’attimo in cui si capisce la merda che dovrai affrontare, racchiuda una tenerezza particolare.
La rabbia deve ancora arrivare, il dolore è lontano, e per pochi istanti è tutto così irreale che nemmeno la sofferenza sembra possibile.
Arriverà, questo è sicuro, ma non ancora, non adesso.
Adesso il trauma è così grave da bloccare le sinapsi, ed è esattamente questo momento che Tweedy e i suoi dipingono, con una sensibilità che lascia senza fiato.
Le parole del quotidiano assumono una valenza nuova, strette tra una tristezza infinita e una cupa ironia di difesa, unico meccanismo automatico di sopravvivenza.
Forse quello che pensi è solo “lasciami sola”
Almeno, è quello che hai detto
Vorresti prolungare questo minuto, dilatarlo fino a farlo diventare un universo parallelo eternamente focalizzato sull’ora, dove non si soffre, non si sta bene, si è solo sedati come appena usciti dalla sala operatoria. Sai che una volta abbandonata questa situazione di stallo arriveranno i momenti bastardi.
Ti senti come Bill, appena dopo che B. ha usato la tecnica dell’esplosione del cuore con cinque colpi delle dita.
Dovrai alzarti, prima o poi, dovrai muoverti, e vorrà dire morire.
Ecco perché mantieni un contegno dominato, quasi camminassi su gusci d’uova di serpente. Dire qualcosa, fare qualcosa, vorrebbe dire andare oltre, probabilmente finire, senza dubbi.
Ma non puoi rimanere fermo per sempre.
Ancora penso che facevamo sul serio
Almeno, è quello che dicevi
Che come frase di chiusura dice tutto quello che deve dire in questo momento, con la delusione che ha infine sostituito l’incredulità, e il sarcasmo che sostituisce l’ironia, forse con l’intento di fare un po’ male.
Forse è proprio questo l’effetto immediato della fine di una storia.
Come l’attimo di sospensione tra una gamba che si spezza e l’urlo paralizzante che ne consegue.
Come il momento in cui la temperatura cala di botto e nubi tempestose coprono il sole.
Come il silenzio tombale che dicono preceda i terremoti.
Poi, la sospensione temporale passa, Crono riprende il suo corso, Bill si alza, fa cinque passi e crolla a terra, le prime gocce di pioggia iniziano a cadere, trasformandosi presto in tempesta, la terra inizia a tremare e si porta dietro cuore, muscoli e viscere.
E’ qui che Jeff imbraccia la chitarra elettrica, Glenn Kotche mentre mastica il suo chewing-gum inizia a pestare su crash, tom e grancassa, il basso asseconda i colpi di bacchetta, il piano sussurra piccole gocce di malinconia, e la consapevolezza prende il sopravvento, nell’assolo maledetto e finalmente disperato che sa di rabbia e cose andate male, di lacrime e pugni al muro, di alcolici a buon mercato e vomito rappreso, di ululati agli dei bastardi e unghie mangiate. Che per quanto ne sai potrebbe anche durare per sempre, ma che infine giunge al termine, dopo stanze gelide, bordelli dell’anima e spettri che urlano in testa.
E quando tutto si posa di nuovo, l’aria sembra avere il profumo acre della vita che, lentamente, riprende a scorrere.
At least that’s what you said
