Inizio a scrivere queste righe appena rientrato dal concerto di Roger Waters.
Che poi, a parlare di concerto si corre il rischio di essere approssimativi, e mai come in questo caso sarebbe sbagliato esserlo.
Non è stato un concerto. E’ stata una rappresentazione di arte contemporanea, perfetta fusione di immagini, suoni e parole, infinita serie di sollecitazioni sensoriali.
Una spirale continua di crash emozionali che si sono evoluti in catarsi interiori a getto continuo, e che a loro volta in pochi istanti sono tornate a sconvolgere il sistema limbico, in un avvitamento che nemmeno si è concluso del tutto con la fine del concerto, e che, assieme al conosciuto effetto acufene, mi porto dietro ancora adesso.
Che altrimenti non si spiegherebbe un paragrafo come quello che ho appena scritto.
Accendo una sigaretta, mentre ripenso ai momenti memorabili dello show. Certamente il finale, affidato ad uno dei pezzi migliori della produzione floydiana, Mother, e a Comfortably numb, Everest artistico della musica contemporanea tutta, passata, presente e futura – e grazie Roger, grazie davvero, ma piange il cuore a non sentire il solo finale fatto da chi lo ha creato, l’altro dioscuro Gilmour – sicuramente la meravigliosa Welcome to the machine, senza dubbio la stordente combo The Happiest days of our lives/Another brick in the wall II, o la cavalcata Dogs/Pigs eseguita sotto lo scorrere colpevolizzante dei potenti del mondo.
Qualcosa sgocciola, ora mentre scrivo, e sarà l’atmosfera notturna, sarà la stanchezza, ma faccio fatica a capire se si tratti del rubinetto di merda del mio lavandino, oppure se sia il cervello che gioca brutti scherzi.
Sembra ci sia qualcosa che schiocchi a ritmi regolari.
Tic. Tac.
Forse la mente sta sul serio andando alla deriva, perché mi pare di essere ancora là in mezzo, quando lo schermo si è ricoperto di orologi.
Time.
E’ vero, Roger stasera ha fatto anche Time, quella che se la metti dall’inizio a tutto volume fa quasi male, quando finisce il ticchettio e partono tutte le sveglie, i pendoli, i campanelli. Roba che ti entra sotto la corteccia cerebrale, come un pensiero inculcato a forza, o un poderoso richiamo all’attenzione nel cuore della notte.
Pare quasi di svegliarsi di soprassalto e sollevarsi al volo dal letto mentre il cuore inizia a martellare. E non serve tornare di nuovo a coricarsi quando gli strilli del tempo finiscono. Ormai il battito cardiaco è accelerato, prendere sonno è una pretesa assurda, e nelle orecchie continua a risuonare la scansione inesorabile dei secondi che passano. Sembra essere nato in un mood del genere, l’intro di Time, con il basso di Waters a sottolineare con battute gravi l’incedere del tempo, ignorante come un rullo compressore senza rimpianti, ansiogena rivelazione d’impotenza nei confronti di tutti gli istanti che scompaiono rapidi nel buio da cui sono venuti.
Dicono si chiami esistenza, questo fluire implacabile, e che si giochi tutta su ingranaggi ripetuti senza reale coscienza, e piccoli acuti pizzicati a cui vien dato troppo significato. Dicono venga da pensarci spesso di notte, a quella roba lì, e che sia evanescente come il fumo di una sigaretta lasciata in sospeso, che prova a prenderlo se ci riesci.
Poi Mason picchia sulle sue pelli. Come ad accendere l’interruttore di una lampada, il brano assume un vigore urgente. La stasi, apparentemente, si spezza e i pensieri tornano lineari, ma non per questo meno gravosi.
Ticchettano via i momenti che riempiono un giorno noioso
Sperperi e sprechi le ore in modo superficiale
E’ proprio vero che il tempo è relativo. Sembra sempre di averne a iosa, quando sei ragazzo. Pare quasi la tua esistenza non debba mai concludersi, e che tu sia destinato a rimanere sospeso per sempre in una bolla dove sei giovane, i pomeriggi sono noiosi e il futuro non arriva mai.
Sul pattern sincopato delle tastiere, la carica rock del pezzo si svela in tutta la sua potenza, mentre il cantato di Gilmour è grintoso come in pochi altri episodi, squarciando sin da subito il velo sul grande inganno del bastardo cronometro eterno.
In un rimpallo emozionale significativo come le stesse parole del pezzo, Gilmour lascia la scena a Richard Wright, la melodia si distende, entra un coro mansueto come la rassegnazione. Come una sorta di dialogo generazionale, la pacatezza delle parti cantate da Wright sono il contraltare deluso ed acquiescente alla bruciante rabbia di Gilmour.
Stanco di distenderti al sole, preferisci stare a casa a guardare la pioggia
Sei giovane e la vita è lunga, e c’è tempo da perdere oggi
E poi un giorno scopri che ti sei lasciato dietro dieci anni
Nessuno ti ha detto quando iniziare a correre, hai perso il segnale di partenza
Persino l’assolo strepitoso – ma tirate fuori altri aggettivi a vostro piacimento su quanto sia bello questo succedersi di note, che io son stanco e son quasi le quattro del mattino – di Gilmour sembra riprendere questo canovaccio, con una prima parte a muscoli tesi, irredenta, combattiva, che lascia spazio come in un pianto disperato che si piega ad una triste consapevolezza solo quando non sembra esserci più niente da fare.
E’ la differenza che passa tra chi pensa a quanto sia ingiusto, sbagliato, crudele, che la vita sia troppo breve, che il tempo si prenda gioco di ognuno con una insensibilità robotica, e chi lo accetta come dato di fatto inconfutabile? E’ la differenza tra avere vent’anni ed averne quaranta?
Forse. Chissà.
Il sole è lo stesso, relativamente parlando, ma tu sei più vecchio
Con il respiro più corto e un giorno più vicino alla morte
Non ho mai pensato, come molti affermano, che in questo pezzo esista una specie di lezione. Mi è sempre parsa una spiegazione troppo semplicistica per una canzone che profuma della stessa filosofia che ha mosso il mondo sin dai letterati greci e romani. L’avvertimento a non sprecare ogni minuto che passiamo in questa dimensione è più consono a qualche meme di merda su Instagram, di chi vuole insegnarti a vivere spiegandoti che stare bene è meglio che stare male. E anche grazie al cazzo.
Time non vuole insegnare, Time è pura presa di cognizione di qualcosa che capitava prima che venisse scritta e continua a capitare dopo che al mondo si è palesato questo capolavoro.
Si chiama invecchiare, e nelle parole di Waters trovo sempre il disappunto e allo stesso tempo l’ineluttabilità di questo percorso.
Manifestazione di pura umanità, intesa come consapevolezza del proprio essere umani, che trova pieno compimento nelle ultime parole del pezzo, prima che venga ripresa la melodia di Breathe, di cui sarebbe bello parlare altrettanto, ma son quasi le cinque, io son cotto, e anche qui, tra queste insignificanti righe, il tempo è passato.
Come sempre. Per tutti.
Il tempo è perso, la canzone è finita
Nonostante abbia ancora molto da dire
Time
