Sei piccoli rintocchi di vibrafono, prima che la batteria entri leggera.
Se ci pensi, sembra assurdo, che una delle più strazianti opere musicali sul ciclo della vita e sulla sofferenza umana inizi con un martelletto a picchiare su un vibrafono.
Ci ha pensato Nick Cave a fare una roba del genere.
Nick Cave è quello che è un incrocio tra sé stesso e il malinconico romanticismo di Leonard Cohen, mischiato con l’attrazione per il lato oscuro di Tom Waits.
D’altronde, a scavare così in profondità nell’animo umano da trovare il minimo comune denominatore dell’esistenza non poteva che essere uno come lui, l’irrequieto e talentuoso australiano, l’uomo che ha vissuto più vite del Conte di Saint-Germain, e che da ognuna di queste è uscito con qualche capolavoro in musica e parole.
Come nel 1989, quando Nick è in Brasile per completare un percorso di disintossicazione dall’eroina che lo porterà a riscoprire una spiritualità profonda, che si trasforma in uno degli album più ispirati della sua straordinaria discografia.
The good son esce nel 1990 ed è subito evidente di trovarsi di fronte ad un capolavoro. E’ un album che trasuda misticismo in ogni nota, a partire dalla meravigliosa Foi na cruz che lo apre, per proseguire con la title-track, ma che non rinuncia per un solo istante all’analisi più nera dell’animo umano, nel pieno stile di Cave.
La vetta assoluta dell’album, zenith di pessimismo e sofferenza, si apre con quei sei piccoli rintocchi.
The weeping song.
Strutturata in un continuo botta e risposta tra Blixa Bargeld, all’epoca chitarrista della determinante band di Cave, i Bad Seeds, e l’artista stesso, è scarna e cruda come può essere solo la vita; riduce all’essenziale i bisogni e le esigenze dell’animo.
Le due voci, cupe come un cielo in attesa di versare il proprio carico di lacrime, danno vita ad una specie di dialogo tra un padre ed un figlio, con Blixa nel ruolo del genitore e Nick in quello del discendente.
L’atmosfera del pezzo, con il suo ritmo bossanova seducente ed allo stesso tempo esangue, racconta una storia di umidità e rassegnazione. Sembra quasi di sentirla sulla pelle, quella canicola che taglia il fiato, che accorcia il respiro.
Forse il padre si è seduto in veranda, le palpebre ridotte a due fessure mentre guarda senza davvero vederla la strada polverosa davanti a sé, perso con gli occhi della mente ad un’idea di passato ormai sfuggita del tutto.
Forse subito dopo il figlio si è avvicinato a lui, con qualche sofferenza di troppo caricata sulle spalle, deferente al cospetto del genitore, probabilmente titubante all’idea di mostrargli il proprio dolore, e si è seduto alla sua destra.
E, sempre forse, come se il padre avesse intuito i tormenti del proprio erede, laconico, inizia a parlare, facendosi triste foriero del significato ultimo del vivere.
Vai, figlio mio, vai verso il fiume, e guarda le donne che lì piangono
Poi va in alto verso le montagne, anche gli uomini, anche loro piangono
Il ciclo della sofferenza umana non risparmia nessuno, ed ognuno porta come un fardello il peso delle proprie colpe e dei propri rimpianti.
Gli uomini che sulle montagne piangono non lo fanno di nascosto, e nemmeno le donne, giù al fiume celano il proprio dolore, come se il manifestarlo fosse in qualche modo una piccola consolazione, l’unica rimasta. Ma forse queste poche parole dicono anche di più, e non sembra una scelta casuale, quella di piazzare gli uomini sulle montagne e le donne giù, sul fiume che deriva dal monte stesso. Impossibile saperlo per certo, almeno finché non riuscirò a farmi pagare un cicchetto dall’australiano, ma sorge il dubbio che la sofferenza delle femmine sia, in parte, diretta discendente di quella dei maschi, e proprio come l’acqua di un fiume, porti con sé anche una parte dei demoni generati a monte, in uno schema patriarcale di causa-effetto che si rivelerebbe, purtroppo, particolarmente attuale.
Padre, perché tutte le donne stanno piangendo? Loro stanno piangendo per i loro uomini
E allora perché tutti gli uomini stanno piangendo? Piangono di rimando a loro
Il vibrafono continua a battere incessante come il tempo che scorre, scandendo secondi gravidi di afflizione, mentre Nick e Blixa condividono il cantato del ritornello, una unione che diventa condivisione del dolore reciproco, e nella quale non è peccato mostrarsi nudi e fragili, placida accettazione dello stato di sofferenza l’uno dell’altro.
Questa è una canzone del pianto, una canzone nella quale piangere
Piangono anche i bambini, nella parte più pessimistica del brano, quando il padre spiega al figlio che le lacrime dei pargoli non sono che una pallida imitazione di quelli che saranno i dispiaceri dell’età adulta, mentre l’aria solenne del pezzo cresce inesorabile, come quando inizi quei discorsi un po’ a caso, e poi ti rendi conto che non stai solo descrivendo una situazione, ma stai avvicinandoti sempre di più alla scoperta di uno di quei segreti dell’essere, quelli che ti condizioneranno per sempre.
Ed è proprio questa nuova consapevolezza, che devasta maggiormente.
O padre, dimmi, stai piangendo? Il tuo volto sembra bagnato al tatto
Allora mi dispiace, padre, non pensavo di averti fatto così male
Forse l’infelicità è una sorta di catena. Forse l’essere umano soffre perché è in contatto con altri della sua specie, ed ogni atto, ogni parola, ogni legame che si crea, è destinato a portare un carico di disperazione pari solo alla necessità che si è avuta di stringere il vincolo stesso. Così il padre patisce per le sofferenze del figlio, ed il figlio si dispera per quelle che ha generato in lui, così le colpe e gli atti di un essere umano condizionano e generano – anche – sofferenza in un altro essere umano, in un circolo vizioso di ferite che non si rimarginano mai del tutto.
E quella perentoria frase finale, ripetuta altre tre volte oltre il ritornello, in un crescendo di imponenza e auto-imposizione, scolpiscono nella pietra l’epitaffio dell’intera esistenza.
Ma io non piangerò a lungo
Come se Bilxa e Nick fossero i biblici Dio e Gesù, ad osservare un mondo sull’orlo del diluvio universale, drastica presa di posizione per cancellare le sofferenze ed i peccati degli uomini.
O, ancora, come se il pianto potesse esorcizzare sé stesso, ed il brano fosse uno spazio libero entro il quale racchiudere il proprio supplizio, confinandolo in una bolla da non aprire mai più, spugna pregna dei pensieri più cupi, vaso di Pandora gonfio della tristezza più mesta.
O forse come se i due non fossero davvero altro che un padre ed un figlio, e quella affermazione finale non fosse altro che la categorica presa di coscienza che solo la morte potrà cancellare le sofferenze.

TESTO E TRADUZIONE

Pubblicità