C’è un tipo che ha origini polacche, e il suo cognome sembra lì apposta a certificarlo.
A 23 anni, sebbene già forte di una laurea in economia, dalla fredda Chicago parte in direzione California, università di Los Angeles, per un master in cinematografia. Mette pure su un piccolo complesso con i suoi due fratelli, anche loro trasferitisi in California. Rick and the ravens, si chiamano. Lui, suona le tastiere.
Cristo santo, che roba devono essere stati gli anni sessanta.
Perché siamo nel 1962, e certe storie, puoi starne certo, in un’altra epoca, non sarebbero nemmeno esistite.
Tipo quando nel 1964, a Los Angeles arriva la famiglia di un ammiraglio in servizio presso la Marina degli Stati Uniti. Il figlio è interessante, diciamo. Irrequieto, istrione, brillante. Prova con un corso di cinematografia, guarda a volte i casi della vita, e incontra quel polacco là.
O tipo quando l’anno dopo, a un corso di meditazione trascendentale – esatto – il ribelle ed il polacco conoscono un chitarrista appassionato di rhythm and blues e musica indiana – esatto – e un batterista con background classico imposto dalle lezioni al pianoforte e una vena jazz mai sopita del tutto.
E’ il 1965, e i quattro sono lì lì per diventare leggenda.
Ray Manzarek, il polacco. Robby Krieger, l’esteta orientale. John Densmore, il jazzista.
Insieme danno vita ad una delle più importanti formazioni musicali della storia, una sorta di unicum irraggiungibile ed inimitabile, che fonde ritmi spagnoleggianti e sonorità orientali, tappeti di tastiere lisergiche e furia proto-punk. Il gruppo, grazie al talento di Manzarek, si permette di suonare parecchie canzoni senza un vero e proprio basso, utilizzando un Rhodes piano bass appoggiato sopra la tastiera, che gli consente di generare una linea sonora distinta per ogni mano. Alla chitarra, Krieger si rivela un maestro dello slide, con un gusto così poliedrico da regalare melodie allucinogene. Densmore è un virtuoso della batteria, tra approcci minimalisti al servizio delle sonorità sviluppate e un tocco di una classe innata.
E poi c’è lui.
James Douglas Morrison, dai più detto Jim, il ribelle.
Carismatico, intelligente, bello come un dio greco, profondo come la fossa delle Marianne, con una voce sensuale e rotonda. Poeta maledetto per antonomasia, dotato di una istintiva sensibilità che sfocia spesso in una cupezza d’animo senza pace, si interessa fin da ragazzo tanto alla cultura beatnik quanto al periodo letterario del romanticismo, maturando una visione fortemente esistenzialista della vita.
Pochi personaggi, non solo nella storia della musica, ma in generale nella storia dell’umanità, hanno avuto l’impatto di Morrison sull’immaginario collettivo. Come un sasso lanciato in uno specchio d’acqua immobile, i cerchi concentrici generati dalla sua influenza non solo hanno investito come onde anomale ogni ambito culturale, ma hanno resistito e resistono tutt’oggi all’usura del tempo, in un moto di rinnovamento perpetuo del mito che sembra avere a che fare più con un culto pagano che solamente con una rockstar.
Morrison, Manzarek, Krieger, Densmore.
The Doors.
Un gruppo che entra nella storia del rock senza bussare, e contribuisce a farla leggendaria.
L’esordio è datato 1967. Anno mica male quello, tra l’altro.
Escono una manciata di album della madonna. Jimi Hendrix (Are you experienced?), Beatles (Sgt. Pepper’s), Pink Floyd (Piper at the gates of dawn), Velvet Underground (Velvet Underground and Nico). E poi ci sono gli Stones, gli Who, esordiscono i Traffic e Bowie. Mica cazzi.
Eppure, in un ambiente di fuoriclasse, in un anno dove la concorrenza abbonda, la band di Morrison piazza una doppietta di dischi destinati a rimanere nella storia delle sette note. Il secondo, Strange days, esce a settembre, e se non è un capolavoro questo io mi chiamo Clarabella e sono una mucca antropomorfa, ma cosa siano destinati ad essere i Doors è già chiaro dall’inizio, da gennaio, quando esce il primo omonimo album, quando si ascolta il primo, strepitoso pezzo.
Si chiama Break on through (to the other side) e già dopo un minuto è possibile rintracciare molti dei temi affrontati dalla poetica di Morrison.
Densmore attacca un ritmo jazzato, Manzarek e Krieger gli vanno dietro come fosse un inseguimento, le distorsioni gonfiate al massimo, gli ampli saturati a dovere.
Ma è quando entra Lui, che capisci che nulla potrà più essere come prima.
Sai che il giorno distrugge la notte, la notte è separata dal giorno
Ho provato a correre, ho provato a nascondermi
Sfonda la barriera e vai dall’altra parte
La dicotomia tra il giorno e la notte è evidente in ogni ambito umano. Giusto e sbagliato, buono e cattivo, angelico e diabolico non sono che due facce della stessa medaglia. Cercare di non rimanere intrappolati in questa classificazione manichea è un esercizio vano, e l’unica soluzione è espandere la propria coscienza, scoprendo la propria reale essenza. L’esortazione a spalancare le celeberrime ed abusate porte della percezione, è un’idea profonda, eterea, quasi mistica, che viene però comunicata attraverso una potenza sonora strepitosa, che parla ai muscoli più che alla mente, che sconvolge per l’aggressività tangibile che sviluppa secondo dopo secondo.
La voce di Morrison è piena manifestazione di questa doppia anima, tanto da farsi essa stessa yin e yang.
Qui inseguiamo i nostri piaceri, seppellendo là i nostri tesori
Ma puoi ancora ricordare, le volte che abbiamo pianto
Con il suo inconfondibile timbro, Jim teorizza di nichilistici approcci all’esistenza, dopo aver sepolto nei recessi della mente le proprie potenzialmente infinite capacità, realizzando di averne ricavato soltanto delusioni.
Ho trovato un’isola nelle tue braccia, una nazione nei tuoi occhi
Braccia che ci hanno incatenato, occhi che hanno mentito
Nemmeno l’amore può essere una soluzione. Hai provato a camuffare la tua indole tra le braccia di un’altra persona, a credere in qualcosa di predefinito perdendoti in quegli occhi, ma alla fine tutto si è rivelato nient’altro che un’altra gabbia, soltanto un’altra bugia.
E poi esplode nuovamente nel ritornello, demoniaco, maledetto, tarantolato, mostrando la via maestra da perseguire per emanciparsi dalle limitazioni imposte dalla società e, soprattutto, da sé stessi.
Ma è quando entra l’organo di Manzarek che diventa impossibile non pensare all’alterazione del proprio stato mentale, in un’associazione automatica della quale si è forse perso il significato originale, tanto da non sapere più se pensi all’acido lisergico a causa di quel suono così caratteristico, oppure se sono proprio quelle note a parlare di LSD.
Sta di fatto che parrebbe essere proprio lei, quella che tutti vogliono, in uno degli innumerevoli passaggi controversi della poetica di Morrison. Vivere ad un diverso stato percettivo, per raggiungere una consapevolezza di sé superiore, è possibile solo attraverso la stimolazione sensoriale che le droghe consentono di raggiungere. L’assunzione di stupefacenti non come fine ultimo, ma come mezzo utile a aprire varchi mentali rattrappiti ed atrofizzati.
Tutti amano la mia piccola, lei ti porta in alto
Dura due minuti e ventinove secondi, Break on through. Due minuti e ventinove che scuotono dalle fondamenta il mondo del rock e gli donano una nuova geografia. Poesia decadente e furia iconoclasta allo stesso tempo, in un connubio che mai prima si era manifestato nella cultura pop, e che forse davvero poteva essere solo veicolato attraverso uno stato di coscienza diverso. Un connubio creato da una delle band più leggendarie della storia del rock, sulle parole del poeta maledetto della musica per antonomasia, morto troppo presto, come tutti gli altri, ma che nonostante tutto continua a vivere, forte dell’immortalità che hanno solo gli eroi.

TESTO E TRADUZIONE

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