Su, inutile nasconderlo, tanto ormai temo si sia capito.
Ultimamente non è che scrivo e non partorisco qualcosa di accettabile.
No.
E’ che proprio non scrivo. Faccio altro.
La maggior parte del tempo gioco a FarCry5 oppure guardo serie TV.
Ogni tanto faccio un viaggio, ancora più raramente esco alla sera.
Ah. Mo’ mi son pure rimesso a giocare a Football Manager. Son riuscito a far vincere uno scudetto all’Inter. Peccato che io abbia la Juve. Cristiano non l’ha presa bene nemmeno nel gioco.
Ma non scrivo più.
E’ che mi pare di aver vomitato su carta gran parte dei demoni che avevo dentro, perlomeno quelli che mi hanno condizionato negli ultimi tre anni, e sto scoprendo una superficialità d’animo utilissima, se vuoi restare centrato su una già di suo precaria condizione mentale. Come quando ti fai male, ma male sul serio. Tipo alle palle. Mai presa una ginocchiata lì? O una pallonata? O una botta con le gambe a cavalcioni di una ringhiera? Passata la fase del dolore che risveglia dentro di te anatemi contro divinità che nemmeno sapevi esistessero, archiviata la sensazione di svenimento provocata dalla mostruosa sofferenza, che all’inizio vai pure a controllare se esistono ancora quelle due noci, ti vien da lasciare le cose come stanno. Lo strazio si placa lentamente, e non ti pare il caso di andare a svegliare il can che dorme.
Una roba così.
Non che sia cambiato il mio rapporto viscerale con la musica, tutt’altro. Quella ronza in testa continuamente. Persisto nell’essere irrimediabilmente innamorato di quel succedersi di parole e note, e con il migliorare del mio inglese sono per paradosso aumentate le analisi, gli spunti e le riflessioni a cui la musica mi mette di fronte.
Ma, fino a stamattina, non mi ero più dato la pena di fare un respiro ed affrontare un’altra volta il cursore che lampeggia come fosse un monito alla tua inedia.
E poi niente, ero lì di fronte allo specchio, una lametta in mano a radermi gli pseudo capelli, ed è partita Cara di Lucio Dalla. E mi son messo a pensare, come quasi sempre, a quante cose ci sarebbero ancora da dire, che forse i temi delle canzoni son più o meno sempre quelli, ma le angolazioni da cui affrontarli sono potenzialmente infiniti.
Che poi la cosa davvero buffa è che son partito con quest’idea di affrontare Lucio e quello che a mio parere è il suo pezzo migliore, ma nel frattempo son passati 40 minuti ed il richiamo di quello là sta vincendo ancora una volta, con i suoi ricordi, la sua triste serenità, il suo ultimo capolavoro.
Il 26 Aprile ero in Marocco. Un altro viaggio, altre splendide anime conosciute. Ma se il viaggio di fine ‘18 era sul serio servito a restare vivo ed aveva partorito quella canzone dei The Veils, questa volta c’è stata più consapevolezza. C’era la voglia di rivedere alcuni di quei fratelli e sorelle conosciuti allora, la curiosità e la meraviglia che ogni chilometro oltre la tua comfort zone ti regala, la wanderlust. E poi vale sempre quello che diceva Il Principe con la saccenza fastidiosa di chi sa di aver ragione, mannaggia a lui.
Due buoni compagni di viaggio non dovrebbero lasciarsi mai.
Comunque, il Marocco scorreva già da qualche giorno, ed io mi stavo rendendo conto che la generazione arrivata dopo la mia, quella dei trentenni, ha prodotto dei capolavori di persone, ma forse son stato fortunato io.
Sta di fatto che il giorno prima ero nel deserto, ancora una volta, pur con meno impatto emotivo. Vuoi perché c’era una spiritualità diversa, vuoi perché avevo deciso di fare un volo da imbambito giù da un muretto.
Prendete nota: se avete più di quarant’anni e appoggiate un piede ad un sasso pericolante per fare un selfie semi-acrobatico, il sasso saprà senza alcuna possibilità di smentita la vostra età, e quindi inevitabilmente pericolerà, facendovi precipitare giù da una scarpata. Se poi ci metti che io da ragazzino preferivo Giovannona Coscialunga a Walker Texas Ranger, risulta evidente come non abbia imparato le regole base degli atterraggi da stuntman.
Insomma, avevo un ginocchio grosso come quello di The Rock, pur con le gambette di una ballerina del Moulin Rouge. Ci sono tragedie peggiori, sia chiaro. Non dell’avere le gambette da fighetta, quella è una disgrazia. Dicevo del ginocchio grosso.
Sia come sia, un po’ per il viaggio, un po’ per il ginocchio, molto per la strana alchimia che si crea a viaggiare con gente che non conosci e che diventa il centro della tua vita per lo spazio della vacanza, non ricordavo che il 26 Aprile sarebbe uscito quel pezzo lì.
O meglio, lo sapevo, ovviamente. Mica sono uno stronzo di fan a targhe alterne. Ma non avevo la percezione esatta di che giorno fosse quel giorno. Capita, quando viaggi. Sere e mattine son scanditi da altre priorità, più che dai numeri di un calendario.
Mi sveglio presto, che dormire in vacanza è un crimine, le Gole di Dades son fuori dalla finestra, l’aria è fresca, in giro non sembra esserci ancora nessuno. Mi vesto, prendo le cuffie ed esco dall’alloggio, poi ricordo.
Si chiama Hello sunshine, ed è il suo ultimo pezzo, appena uscito.
E la prima volta che la ascolto sono lì, vestito mezzo come un tuaregh, mezzo come Diego Abatantuono in Marrakech Express.
Mi accendo una sigaretta e lascio che quella magia lì faccia di me quello che vuole, come sempre; questa volta forse pure un po’ di più.
Quando inizia, non lo so ancora. Sento le spazzole che si agitano sul rullante, ascolto il basso che entra come un vecchio affetto da una lieve zoppìa, mi lascio trasportare dal giro di chitarra in sottofondo. Le Gole di Dades mi sovrastano, e la luce filtra dall’alto, cadendo da un cielo azzurro come fosse photoshoppato, senza darmi alcun riferimento su dove sia il sole.
Poi entra la sua voce. Per la prima volta, lo capisco, capisco cosa dice Bruce Springsteen, senza leggere ed imparare a memoria il suo testo. Sì che sembra sempre che abbia una patata in bocca, ma stavolta lo capisco.
Ne ho avuto abbastanza di cuori spezzati e dolore
Avevo un piccolo e dolce spazio per la pioggia
Per la pioggia e i cieli grigi
Brutto stronzo, ci hai messo dieci secondi a chiudermi la gola. Hai voglia a dire che è il vento che ha sollevato una sabbietta che sa ancora di deserto.
Si sapeva, dalle indiscrezioni, che il nuovo album di Bruce sarebbe stato mediamente introspettivo, a raccontare gli spazi aperti dell’America, che confinano senza muri con la malinconia che il capo di Freehold si porta dentro da sempre, ma Cristo, un inizio così va oltre ogni aspettativa.
Dici che l’hai fatto apposta, a farmi trovare qui, a soquanticazzodichilometri da casa, a rendermi conto all’istante che sono in uno di quei momenti perfetti che capitano raramente come gli orgasmi simultanei?
Lo sai che mi sono sempre piaciute le mie scarpe da cammino
Ma ti sei affezionato un po’ troppo alla tristezza
Cammini troppo a lungo, ti allontani
Non capita davvero così, certe volte? Quell’attimo in cui ti accorgi che la bassa pressione che gravita sul tuo stomaco è diventata parte di te, ti identifica, al pari delle tue idee, con la stessa peculiarità del tuo naso grosso, o delle tue orecchie a sventola. E’ la rivelazione di un secondo, e c’è da farci attenzione, perché capirlo è il primo passo per cercare di lasciarla lì dov’è. E’ solo quando ti rendi conto che ne hai la borsa piena del dolore, che puoi provare ad abbandonarlo, e muovi lentamente pure i tuoi pensieri per non far scappare quella sensazione, tanto che quasi ti vien da chiederglielo, timido.
Buongiorno splendore, non vuoi rimanere?
Bruce gioca con le parole, fine conoscitore della malattia bastarda chiamata depressione, e crea una poesia agreste di portentosa potenza, nella ricerca di quella serenità impossibile da trovare se non nella consapevolezza della sua istantaneità.
Lo sai che ho sempre amato una città deserta
Quelle strade vuote, con nessuno intorno
A innamorarti della solitudine finisci in quel modo
Forse è davvero così. La serenità non si persegue. A cercarla con insistenza rischi di girare a vuoto senza trovarla, come fosse un elettrone che si sposta lungo traiettorie che non riesci ad identificare. Forse ti capita tra le mani un po’ a caso, quando hai smesso di cercarla.
Lo sai che ho sempre amato questa strada vuota
Nessun posto dove andare e miglia da percorrere
Ma le miglia da percorrere sono lontanissime
‘Sto capolavoro prosegue come se fosse normale, cullato da una chitarra slide che forse Dio esiste sul serio, mentre passano i secondi e diventa evidente il fatto di trovarsi di fronte a qualcosa di superiore: la musica e le parole formano un’unità di intenti che è tutt’altro che casuale, ma è la scelta precisa di un artista che ancora una volta riesce nell’impresa di valicare il reale e parlare direttamente a quella roba astratta che a volte chiami anima.
E come è iniziata, Hello sunshine finisce, con una sospensione sull’ultima parola, prima che il piano leggero, e assieme a lui uno stormo d’orchestra, porti via tutto, tristezza, serenità, gioia, depressione – e prova a non sentirla risuonare fin nelle ciglia, quella musica lì – nel gioco dell’oca che inizia e finisce ogni porco giorno, e che ogni volta trova in sé stesso la giustificazione per un altro giro di giostra.
Nelle Gole di Dades sembra tutto immobile, e mi vien da pensare che le strade vuote le hai messe tu apposta per questo istante. Cammino in mezzo alla strada, allargo le braccia, gonfio il petto, alzo la testa e la sento tutta, quella letizia. Scorre attraverso il prosaico dolore al ginocchio, si sofferma giusto il tempo di un saluto a quel dolore più effimero eppure così intenso, a volte, martella un secondo nella testa per lo sbuffo di sigaretta, esce al mondo nel mio sorriso, mentre realizzo che non son mai stato così bene.
E’ solo un momento, ma per quanto ne so potrebbe pure durare per l’eternità.
Buongiorno splendore, non vuoi rimanere?

TESTO E TRADUZIONE

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