E’ il 20 febbraio 1996 quando inizia la quarantaseiesima edizione del Festival di Sanremo.
Esticazzi, verrebbe da dire, per molti versi non a torto.
Ma questa edizione, questa prima serata in particolare, ha in serbo qualcosa che a pensarci a distanza di vent’anni ha dell’incredibile.
Su quel palco, addirittura prima che il Festival vero e proprio inizi, sale Bruce Springsteen, da Freehold, New Jersey.
Bruce ha accettato la comparsata, a patto che vengano rispettate alcune regole: esibizione al di fuori del contenitore Festival, nessuna intervista prima e dopo, traduzione in sovraimpressione della canzone che canterà. Non è importante il personaggio Springsteen, è importante il messaggio della canzone. Il resto, è una grossa sega mentale che vi potete sparare anche da soli, sembra dire.
Pippo Baudo, direttore artistico del Festival e all’epoca ancora Re di Sanremo e della TV italiana tutta, accetta le regole. Presenta Bruce quasi con emozione, dalla platea, lasciando il palco solo a lui. Incespica su qualche parola, proprio lui, abituato ad ogni tipo di esperienza televisiva.
E Bruce entra così, l’occhio di bue che lo illumina, gel sui capelli tirati indietro e pizzetto, che in quegli anni va così. Ha una chitarra acustica, un’armonica, e in bocca un pezzo destinato a rimanere tra i capolavori della sua intera discografia.
The Ghost of Tom Joad.
Tom Joad è il protagonista del romanzo di Steinbeck “The Grapes of Wrath”, in italiano “Furore”.
Negli anni ’30, a causa delle tempeste di sabbia, generate da decenni di uso improprio dei terreni destinati alle coltivazioni, molte famiglie americane sono costrette ad abbandonare le proprie attività ed abitazioni. Così fanno Tom e la sua famiglia, emigrando verso ovest, verso la California, alla ricerca di un lavoro, un posto dove stare, una nuova vita dignitosa, lontano dalla miseria e verso una terra promessa ancora tutta da stabilire. Troveranno solo salari da fame, prevaricazione e sfruttamento.
Un libro di denuncia sociale profonda, in un’America colpita duro dalla grande depressione.
Uno scenario apparentemente diverso da quello di metà anni ’90, quando Bruce sale su quel palco, ma i segnali di un possibile nuovo disastro ci sono tutti.
In una nazione, ma per estensione un mondo intero, che sta svelando la sua vera natura, svestendo i panni truffaldini della crescita globale sostenibile per mostrare il ghigno viscido e ingordo del neoliberismo sfrenato, il messaggio di Bruce è forte, e lo è ancora di più se ogni cerimoniale rock viene svestito della sua apparenza. Ecco perché la scelta minimale, l’attenzione maniacale ai particolari, la totale assenza di concessioni allo spettacolo.
C’è solo la musica.
Ci sono solo le parole.
Il giro di chitarra è appena accennato, quasi stanco, e l’armonica, la stessa stronza armonica che ha regalato per molte volte sollievo e spazi aperti, ora sembra quasi piangere.
La tipica garra Springsteeniana sembra rimasta in quella terra promessa che ha infine tradito le attese, e la voce del nostro è un sussurro impercettibile.
Invita alla deferenza.
Uomini che camminano senza una meta precisa lungo la ferrovia deserta, simbolo della produttività manifatturiera crollata e di una classe sociale che dopo anni di crescita e di illusione di poter aspirare al continuo miglioramento della propria condizione economica e di vita si trova percossa dalla stessa mano che fino a pochi anni prima gli lisciava il pelo.
Benvenuti nel nuovo ordine mondiale, dove le famiglie dormono nelle loro auto, senza casa, lavoro, sicurezza e riposo, canta Bruce, tra predicatori di strada senza più fede e persone che si lavano nell’acquedotto pubblico. Eccole, le contraddizioni tipiche del mondo statunitense, che il nostro affronta con la solita capacità di descrivere in una sola frase la visione di interi decenni di storia.
“Hai un buco nella pancia e una pistola nella mano”, come a dire che non puoi permetterti nemmeno il cibo, ma hai la possibilità di avere un’arma.
E poi c’è la strada. C’è sempre una strada, nelle canzoni di Bruce. Ma questa è una strada bastarda, piena di gente che non ha alcuna voglia di scherzare, una strada che tutti sanno dove andrà a finire.
Ad ascoltarla ora, a distanza di vent’anni, fa quasi paura. E’ così vera che fa quasi male.
Il solo apparentemente innocuo blob della globalizzazione in poco più di trent’anni ha divelto lo stato sociale delle singole nazioni in nome di quell’entità teoricamente autoregolante che è il mercato, ma che è tanto autoregolante come io sono un giraffa, e che sul proprio altare ha ormai sacrificato ogni speranza di distribuzione equa delle risorse presenti sul pianeta.
Un blob melmoso come sabbie mobili, che lentamente hanno fagocitato l’intera popolazione mondiale, finanziando colpi di stato legalizzati, armando gruppi paramilitari per rovesciare governi e piegando alla propria volontà le politiche economiche delle democrazie solo teoricamente più evolute, che ora si trovano a dover scegliere tra una deriva di destra vomitevole e pericolosa e una sinistra sui generis asservita al potere, che baratta una concessione ai diritti civili (che dovrebbero essere basilari a prescindere) con un’idea di gestione dello stato sociale ormai completamente snaturata, se non del tutto inesistente.
Tutto si lega, nel nuovo giochino globale.
La prevaricazione anche violenta verso chi pensa ad una soluzione diversa rispetto a questa, l’umiliazione sul volto dei lavoratori, la fila interminabile di chi scappa da una guerra o da una condizione sociale di merda.
Tra uno strattone ai governi per un liberismo ancora più spinto, e un’esplosione ogni tanto per ricordarsi chi comanda e al contempo legittimare misure che normalmente farebbero vomitare un ratto, mai come oggi le parole di Bruce sembrano attuali.
“Dovunque un poliziotto picchia una persona
dovunque un bambino nasce gridando per la fame
dovunque c’è una lotta contro il sangue e l’odio nell’aria
cercami e ci sarò.
Dovunque si combatte per uno spazio di dignità
per un lavoro decente, una mano d’aiuto
dovunque qualcuno lotta per essere libero
guardali negli occhi e vedrai me”
E a volte sono bombe e carne dilaniata, a volte sono la grassa risata di un fondo di investimento, a volte la mano pesante di uno che non ha capito chi è il vero nemico, in questa guerra fra poveri che ci fa sempre più ignoranti e limitati, mentre il fantasma di Tom Joad non spaventa proprio nessuno, e anzi, si caga in mano di fronte alla spietatezza di quel virus che a volte abbiamo il coraggio di chiamare uomo.

TESTO E TRADUZIONE

Pubblicità