Quando si parla dello zio barbuto, spesso si dimentica che è (stato, ormai) un musicista, e si tende a soffermarsi esclusivamente sui suoi testi, come se la potenza delle sue parole ne avesse oscurato il talento musicale.
Sicuramente, la portata delle liriche di Guccini è superiore alla sua valenza in ambito sonoro, ma ciò non toglie le capacità del nostro come musicista vero e proprio.
Quello che non…, pezzo d’apertura dell’album omonimo del 1990, è in questo senso uno dei brani ideali per dimostrare il genio, anche musicale, di Francesco. Ad un arpeggio di chitarra in apertura si aggiunge rapidamente un’armonica dylaniana il giusto, come il rumore di un treno che da lontano si avvicina e che in un attimo è di fronte a te, sferragliando sotto i colpi dell’intera band. Provate ad ascoltarla al consueto volume criminale del rock, e se quell’intro non vi fa rizzare i peli del coppino andate al bar a prendere una birra.
Pago io.
Certo, poi quella fragorosa locomotiva passa, e resti di nuovo lì, un leggero fischio nelle orecchie, sotto il cielo pulito di un’estate bastarda, a pensare.
Per sua stessa ammissione, come in molti suoi capolavori, Francesco si rivolge ad una figura femminile, e a me piace immaginarli così, lui e lei, seduti su una scarpata vicino ai binari, i loro occhi che non riescono a guardarsi ma scrutano un orizzonte mai così indecifrabile, mentre il disfacimento del loro rapporto prende forma.
Forse è sempre così, quando è il momento di prendere un respiro più profondo, e accettare che le cose non vanno più. Forse vengono sempre in mente immagini che sembra non c’entrino un cazzo, perché la mente fa un po’ come le pare, e tenerla concentrata diventa impossibile, quando sai che rimanere sul pezzo può significare solo più dolore.
Oppure è che non esiste un modo per spiegare, per spiegarsi certe cose, e allora ci si arrampica sulle pareti del proprio stomaco, alla ricerca di qualche cosa che renda l’idea dell’incertezza che si prova.
E quando c’è Francesco di mezzo, potete star certi che l’idea arriva diritta. Al cuore, alla pancia, alla testa.
Lo senti un aereo che porta lontano, lo senti quel suono di un piano
Di un Mozart stonato che prova e riprova, ma il senso del vero non trova
Come si volesse scappare dalla relazione, perché l’unica cosa che ormai viene restituita è un ripetersi eterno dello stesso suono, che lascia insoddisfatti, non realizzati, sempre alla ricerca del senso ultimo dell’esistenza. Ma anche l’aereo come simbolo del sogno di volare, un sogno che si allontana sempre di più, perché quella ripetitività quotidiana è assassina, ma non cancella i ricordi di un amore comunque importante.
Lo senti il perché di cortili bagnati, di auto a morire nei prati
La pallida linea di vecchie ferite, di lettere ormai non spedite
Cresce di tono la voce del Guc, ed è un piacere per le orecchie sentirlo inerpicarsi su sé stesso, mentre parla di cortili bagnati, luogo di ritrovo di una felicità ormai passata, come quelle auto trascurate e ormai del tutto inutili. E anche le liti di tanto tempo fa sembra tornino proprio ora a farsi vedere, come cicatrici, adesso che è troppo tardi per dirsi le parole che forse avrebbero potuto guarirle.
Lo vedi il rumore di favole spente, lo sai che non siamo più niente
Non siamo un aereo, né un piano stonato, stagione, cortile od un prato
Ecco, allora, cosa siete, tu e lei, Francesco. Non siete più niente. Tutto quello che eravate sparisce con il vostro addio, e non ci sarebbe da aggiungere altro, ma il solo pensiero è così devastante da costringerti ad una parziale retromarcia, come quando litighi con qualcuno, e dopo una frase piccata ti giri e fai per andartene, ma poi torni indietro, a dire ancora, a precisare, quasi a tenere botta un attimo di più, che non si può mica finire così.
E allora avanti, a parlare di strade deserte, malinconiche scoperte del passato, paesaggi abbandonati, e quelle rotaie implacabili per nessun dove, che io non lo so di preciso che cazzo volevi dire, Fra, ma è una figura così evocativa che quando la ascolto mi commuovo sempre, vecchio mio, e penso a un futuro già scritto, a un destino segnato, a una corsa insensata verso nessun posto che possa regalare un minimo di serenità, perché quel posto non esiste. Non per voi, almeno. Non più.
Ma non è così semplice, non ci sono interruttori, non si smette in un attimo di amare, ed è come se volessi scusarti, per il male che le fai, per la sofferenza che ti infliggi.
Lo sai che colore han le nuvole basse, e i sedili di un ex terza classe?
L’angoscia che dà una pianura infinita?
Combattere tutti i giorni con la propria insoddisfazione, con il proprio umore nero non lascia scampo. E’ una guerra che non si può vincere, se non da soli. Ma la paura di ritrovarsi dentro a quel grigiore persistente senza nessuno al proprio fianco è troppo grande per lasciare che la ragione vinca così facilmente, ed ecco quell’esortazione così umana, così vera, così commovente.
Hai voglia di me e della vita?
E’ che è troppo tardi, Fra.
Forse avevi ragione prima. Non siete futuro né passato. Avventura o noia, rivelazione o banalità.
Non siete un attimo, non siete una vita. Non siete più niente.
E l’esistenza andrà avanti, il mondo continuerà a rotolare su sé stesso come un pastore tedesco mezzo scemo, ma niente potrà cancellare il vostro non essere più niente. E anche la serenità infine ritrovata (perché quella stronza lì prima o poi si ritrova sempre) sarà un po’ meno straordinaria, come quei film che hai già visto e che riguardi volentieri, ma che non ti piaceranno mai come la prima volta.

TESTO

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