Il dipartimento della prole inutile.
A braccio, suona così, il titolo di questo pezzo.
Ora, lascialo un attimo da parte. Fai finta di essere Carlo Lucarelli e che questa sia una puntata di BluNotte. Ma tienilo a mente, perché scendiamo lentamente verso l’inferno.
Ciudad Juarez è una città nell’estremo nord del Messico, messa lì al confine con gli Stati Uniti, precisamente con la città di El Paso, come fosse per sbaglio.
Stando al fido Google Maps, uscendo dalla città in direzione sud, dopo 41 chilometri, trovi la cittadina di Samalayuca. In mezzo, il nulla. Se invece decidi di andare verso ovest, percorrendo l’autostrada 2, servono come minimo 122 chilometri per trovare un altro buco che si possa chiamare paese, Los Trios. In mezzo, ma anche di lato, a voler fare i pignoli, il nulla.
Fanno un sacco di chilometri quadrati di nulla, attorno a Juarez. E’ il deserto del Chihuahua, un niente dove puoi sbarazzarti facilmente di un cadavere. Perché Ciudad Juarez è uno dei posti più violenti e pericolosi della terra, dove narcotraffico ed altri commerci illegali trovano terreno fertile proprio per la vicinanza con gli Stati Uniti, porta presidiata ma anche no per ogni sorta di affare. D’altro canto, Ciudad Juarez attira anche persone da tutto il Messico per la presenza delle Maquiladoras, fabbriche straniere che producono beni di consumo – e di lusso – per le economie avanzate, e che a causa degli accordi NAFTA (North American Free Trade Agreement) tra Messico e USA godono di agevolazioni e status da paradiso fiscale, oltre che di manodopera a basso, bassissimo costo rispetto ai ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti finiti. Hai detto globalizzazione e turbo-liberismo? Si, vabbè, qui è così dal 1965, tanto per capire che aria tira.
Sempre se controlli con Google Maps, da lì a El Paso, Texas, ci vogliono circa 20 minuti di auto per quasi tre chilometri, se vai verso gli Stati Uniti, meno della metà per il tragitto inverso.
Ah-ah.
Ma anche se divise da quelle righe dritte tipo geometria delle medie, in fondo Juarez ed El Paso son tutto un agglomerato unico. E comunque quelle linee che chiamano confine, fatte così ad angolo retto, a guardarle a modo fanno ridere come le battute del Bagaglino. Cioè molto poco e senza gioia.
E’ in questo posto, che crescono Cedric Bixler Zavala, di origini messico-tedesche, e Omar Alfredo Rodriguez-Lopez, che invece è nato in Portorico, e davvero poco importa che si tratti di El Paso invece che di Juarez. Tipo quando una volta mi son trovato in colonna in attesa di passare la dogana tra Slovenia e Croazia, e, mentre fumavo una paglia ascoltando gli EKV, mi son visto passare sopra un piccione di merda che se ne sbatteva dei documenti, e faceva avanti e indietro. Tra l’altro, chissà se parlano tutti la stessa lingua, i piccioni di merda, oppure se hanno un dialetto per ogni zona diversa.
Sia come sia, Cedric ed Omar, il primo alla voce, il secondo alla chitarra, verso la metà degli anni novanta, danno vita ad una band tra le più importanti della scena rock alternativa, gli At the Drive-In, con la complicità di Jim Ward, Paul Hinojos e Tony Hajjar. Partendo da una matrice non lontana da un rap-punk aggressivo che prende spunto dai Rage Against the Machine, la band di Cedric ed Omar diventa presto una delle migliori realtà in ambito post-core, dove la ricerca sonora e l’approccio artistico non limitano le frequenti accelerazioni hardcore.
Nel 2000, un anno prima che Cedric e Omar mettano di fatto fine alla band per formare i The Mars Volta, esce il loro terzo album, Relationship of command.
La seconda traccia del disco è destinata a lasciare il segno.
Si chiama Invalid litter department. Il dipartimento della prole inutile, ricordate?
Una chitarra acida apre stridente il brano, come se un nugolo di avvoltoi girasse attorno ad una carogna pronta per essere divorata, mentre singoli accordi di tastiera vomitano desolazione e, forse, rimpianto.
Educazione per via endovenosa,
Erano le ricetrasmittenti che avevano staccato la spina
Mentre le loro scarpe restavano intrappolate sul pavimento sporco
Delle sagome morenti
Cedric non canta, ma come fosse un giornalista al fronte espone la drammatica situazione di Jerez. L’abbiamo vista, è una città violenta e senza scrupoli da parecchio tempo, ma è a partire dall’inizio degli anni novanta che il contesto è variato drasticamente, e non in meglio. Centinaia, forse migliaia, di donne ogni anno vengono trovate uccise, stuprate e seviziate nel deserto del Chihuahua, in una mattanza che non ha eguali. Molte sono lavoratrici delle Maquiladoras, che vengono aggredite mentre vanno o rientrano dal lavoro in fabbrica. Si parla di serial killer, di sette sataniche, di snuff movies. Quale che sia la realtà, la società patriarcale mette ancora una volta in atto il proprio uso a piacimento della vita delle donne, derubricate una volta di più a carne da macello. Povere, spesso lontano da casa per guadagnare il necessario a sostentare la famiglia, senza alcuna tutela reale, sono le vittime designate di un massacro vergognoso.
La band si scaglia contro questa mattanza, mettendo in risalto l’inedia delle istituzioni e delle forze dell’ordine, oltre alla noncuranza dei federali statunitensi e l’assuefazione alla carneficina ormai data per assodata dalla popolazione.
Ballando sulle ceneri dei cadaveri
Sembra quasi di percepire l’assurdità della situazione, nel mantra infernale ripetuto alla fine di ogni strofa, con una vena melodica in contrasto puro alla violenza delle circostanze.
Sulla mia strada le unghie si spezzano e cadono
Nel pozzo dei desideri, desideri, desideri
Ed è come se, lungo il tragitto che le ha portate tra le grinfie di bestie travestite da maschi, queste donne prendessero la parola un’ultima volta, nel ritornello, parlando delle loro unghie spezzate, simbolo di tutte le loro sofferenze in contrapposizione ai sogni che ognuna di loro nutriva, e quel pozzo dei desideri diventa beffarda sconfitta dell’umanità, pura rappresentazione della malvagità umana.
Le parole di Cedric non fanno nulla per mascherare l’indignazione, e senza lasciare nulla all’immaginazione trasformano la violenza in lacrime, la ferocia in singhiozzi, mentre la chitarra di Omar spazia sopra l’aridità del deserto come fosse un drone telecomandato, a svelare colpe non riconosciute ed accuse a tutto il sistema che ha permesso e permette questo scempio.
Ma è sul finale che il pezzo assurge alle vette più elevate.
Il parlato di Cedric diventa un sussurro funereo, nel ripetersi del ripugnante mantra, prima che il muro delle chitarre prenda la scena.
Piedi callosi, intorpiditi dai viaggi
Cartine infinite create dai loro bisturi, bisturi
L’immagine di piedi nudi stremati dalla fatica del lavoro, abbandonati nel deserto nella bestemmia di una morte brutale è straziante, e fa male fisico pensare alle mappe della zona, puntellate dai segni del ritrovamento dei cadaveri di ognuna di queste donne, assassinate per il solo fatto di esserlo, per il solo gusto di poterlo fare senza conseguenze, come non fossero esseri umani, madri, sorelle, mogli, figlie, ma solo carne da utilizzare per sfogare i propri demoniaci e violenti istinti di merda.
E l’urlo finale di Cedric si carica di tutta la rabbia dell’universo, scorre sottopelle come una processione infinita che elenca i nomi di tutte le donne trucidate, ed è come se il cantante volesse veicolarla contro ognuno di questi esseri immondi, a Jerez come in qualsiasi altro luogo della terra, ieri, oggi, domani, sempre, dove la prevaricazione e la violenza assumono i connotati dello sterminio cosciente di un altro essere umano, solo per il fatto che questo sia femmina, solo per il fatto che venga considerata prole inutile, se non atta a soddisfare gli istinti maschili più biechi.

TESTO E TRADUZIONE

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